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Introduzione

Il tema delle riforme istituzionali è certamente rilevante, e Fucinaidee gli ha sempre dedicata una adeguata attenzione.

L’obiettivo del conseguimento di una autentica "Democrazia governante", in cui il rispetto delle procedure democratiche si saldi con la necessaria stabilità, è il traguardo a cui deve mierare ogni seria riflessione e/o proposta concreta concernente l’architettura istituzionale di un paese moderno.

Come si sa la strada delle riforme costituzionali è molto complessa e nessuna di quelle proposte per accrescere la stabilità di governo è andata a buon fine. Può sembrare paradossale ma così sono andate le cose: da decenni il tema delle riforme viene posto all’ordine del giorno delle varie maggioranze che si sono alternate alla guida del Paese, per poi arenarsi nei necessari  referendum confermativi.

Può sembrare paradossale, ma le uniche proposte andate a segno sono state quelle che, se pur in modo e con motivazioni diverse, hanno portato ad un indebolimento delle funzioni dell’assetto istituzionale centrale del nostro Stato. Così mi sembra di dover leggere le vicende della riforma del Titolo V della Costituzione, confermata con il referendum del 2001, e la riduzione del numero dei parlamentari, confermata con il referendum del 2020.

Credo sia pertanto legittimo avanzare forti perplessità sulla concreta possibilità di condurre in porto una seria riforma costituzionale. Da qui la convinzione che le proposte di cui si parla rispondano più a logiche elettorali che a sinceri convincimenti.

Ma al di là di ciò, vi è un equivoco di fondo da sciogliere prioritariamente ad ogni ulteriore passaggio della riflessione; è quello riguardante la netta separazione dell’ambito istituzionale da quello politico. In sintesi: i nostri mali sono il frutto di una debolezza istituzionale o della cattiva qualità della politica?

Tema che ho cercato di trattare in un articolo intitolato “Obiettivo Democrazia Governante”: qualità della politica e riforme istituzionali.

   Articolo che è stato anche commentato e sviluppato da Berto Corbellini Andreotti, con un contributo di cui più sotto indico il link. 

  Su questi temi Fucinaidee torna con interesse, pubblicando l'anticipazione del prossimo numero (n. 3, di inizio ottobre) della rivista Civiltà Socialista diretta da Fabrizio Cicchitto e Umberto Ranieri.

Non concordo con la prospettiva di Legge Elettorale indicata da Calderisi, che opta per un sistema maggioritario a doppio turno. Concordo invece sulle perplessità avanzate sulla proposta di premierato elettivo e sull’analisi circa l’imbarbarimento della qualità della politica. In accordo con il mio pensiero, anche Calderisi ritiene fondamentale un intervento sulla Legge Elettorale giacché non comporta alcuna procedura di revisione costituzionale.

Partendo dalla necessità di combattere il populismo di cui si nutrono le componenti più radicali dei due schieramenti, si individua nel rafforzamento delle componenti centriste un fattore di stabilità e di buon governo. Mentre però io penso ad un sistema proporzionale, quindi lasciando alla mediazione politico-parlamentare successiva alle elezioni il compito di costruire una maggioranza, sulla base di un progetto di governo condiviso, con i sistemi maggioritari tali coalizioni vanno costruite preventivamente per essere sottoposte al voto. Premesso che ogni contesto ha elementi propri, credo però di poter osservare che da noi i sistemi maggioritari sono fatti soprattutto per vincere le elezioni, mentre il proporzionale potrebbe agevolare la formazione di una più condivisa prospettiva di governo….    

Può sembrare un’affermazione bislacca: riflettiamoci!  

Paolo Razzuoli

 

Premierato elettivo - Il sistema istituzionale non è uno stoccafisso

 

di Peppino Calderisi

 

 

Introdurre l'elezione diretta del presidente del Consiglio comporterebbe un sistema troppo rigido e non assicurerebbe affatto stabilità e governabilità.

Ma c'è un'altra strada per la riforma di cui l'Italia ha bisogno

 

 

Il confronto tra la stabilità di governo delle maggiori democrazie parlamentari e quella italiana è impietoso, considerando che in Italia si sono succeduti ben sessantotto governi in settantasei anni di Repubblica. Ma se le altre democrazie parlamentari hanno governi di gran lunga più forti e stabili, ciò non è dovuto all'elezione diretta del premier – che non esiste e non è mai esistita da nessuna parte, salvo per un breve lasso di tempo in Israele nel 1992 – ma in virtù della razionalizzazione della forma di governo parlamentare assicurata da apposite norme e convenzioni costituzionali. In particolare quei «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo», chiesti dall'ordine del giorno Perassi (approvato il 4 settembre 1946 dalla seconda Sottocommissione dell'Assemblea Costituente), ma rimasto lettera morta, come è noto, per lo scoppio della Guerra Fredda, oltre che per l'altrettanto noto «complesso del tiranno».

Con la conseguenza – come recita un recente appello promosso dall'associazione apartitica IoCambio, pubblicato dal Corriere della Sera il 5 settembre scorso,

– che «In questi decenni la costante è stato il parlamentarismo estremo, che da garanzia democratica postbellica si è via via involuto in patologia politica: coalizioni fragili e inconcludenti in scacco di grandi e piccoli partiti, campagne elettorali permanenti e prevalenza di logiche di breve termine, mancanza di visione e di senso di responsabilità».

Nelle democrazie parlamentari razionalizzate il premier dispone, in particolare, di poteri che gli consentono di governare le tensioni e i conflitti all'interno dell'esecutivo e della maggioranza impedendo che si traducano in instabilità e crisi di governo. Ad esempio, il voto di fiducia (o di nomina) è espresso dalla Camera politica (una soltanto) al solo premier prima che formi il governo; il premier ha poi la possibilità di revocare i ministri e, soprattutto, può chiedere e ottenere, almeno in alcuni casi come la bocciatura della questione di fiducia, lo scioglimento anticipato della Camera politica. Un potere decisivo anche e soprattutto in chiave deterrente (in Germania è quanto dispone l'articolo 68 della Costituzione, ed è questo dispositivo a garantire la stabilità dei governi, non l'art. 67 sulla sfiducia costruttiva utilizzata solo una volta. Anche in Spagna, Regno Unito e Svezia il premier dispone del potere di scioglimento secondo diverse discipline).

In tutti i tentativi di riforma, finora sempre falliti, non sono state solo le componenti conservatrici ad opporsi all'introduzione di questi dispositivi costituzionali, ma anche quelle componenti della maggioranza che non intendevano concedere al premier in carica poteri che avrebbero fortemente inciso sui propri poteri di veto, interdizione e ricatto. E sembra che anche questa volta il copione del film non cambierà, stando alle anticipazioni del testo del disegno di legge del governo (solo tre articoli) di cui alcuni giornalisti hanno potuto prendere visione e di cui hanno riferito il 2 settembre scorso.

Esaminiamo il perché. L'elezione diretta (non si sa se al primo turno sia sufficiente solo il quaranta per cento dei voti validi, mentre per i sindaci occorre giustamente il cinquanta per cento) avverrebbe con scheda unica in cui l'elettore dà il voto al candidato premier e a una delle liste che lo sostengono.

La legge elettorale, da supporre con il premio, può certo favorire ma non assicurare la maggioranza, stante i paletti stabiliti dalla Corte costituzionale per evitare una eccessiva compressione della rappresentanza in caso di forte frammentazione del sistema politico. Pertanto non può esservi certezza che il premier abbia la maggioranza a seguito delle elezioni, e comunque potrebbe perderla nel corso della legislatura.

Da qui e dall'impossibilità di applicare la regola del simul stabunt simul cadent in vigore a livello comunale e regionale, le contraddizioni del testo governativo. Esso prevedrebbe in caso di cessazione della carica del premier (dimissioni, morte, impedimento o sfiducia) lo scioglimento del Parlamento, salvo che esso proponga un sostituto che sia però espressione della stessa maggioranza (qui la differenza con la sfiducia costruttiva alla tedesca). Il sistema è pertanto molto rigido con il rischio di frequenti elezioni anticipate, salvo la norma antiribaltone che cercando di impedire cambi di casacca e di maggioranza, finisce però per essere un'arma a doppio taglio perché renderebbe il premier ricattabile anche da parte di un piccolo partito (dato che non può essere sostituito), oltre che da parte dei leader degli altri partiti più consistenti della coalizione che aspirano alla premiership.

Anziché attribuire al premier poteri per disciplinare la maggioranza, la norma antiribaltone istituzionalizzerebbe il conflitto al suo interno, dando a ciascun partito della coalizione il potere non solo di crisi ma anche di scioglimento anticipato. E potrebbe anche favorire nuovi patti della staffetta, come quello della Prima Repubblica (che almeno fu il frutto di meri accordi politici e non di una norma costituzionale). Come potrebbero esserci esecutivi stabili, ma al caro prezzo della paralisi e dell'ingovernabilità.

Insomma, la strada maestra è quella di dotare il premier di un adeguato corredo di poteri, tra cui è fondamentale quello di scioglimento almeno nel caso di bocciatura della questione di fiducia, ma poi si deve lasciare il resto alla politica, senza pensare di poterle mettere le brache ingessando il sistema con singolari ortopedie costituzionali come la norma antiribaltone che sarebbe controproducente. Il sistema istituzionale non è uno stoccafisso! L'elezione diretta del premier crea inoltre una grave disfunzione istituzionale perché va a intaccare la fonte di legittimità del presidente della Repubblica e quindi il suo ruolo di garanzia.

Il premierato elettivo non è dunque la riforma di cui l'Italia ha bisogno. Ma si può benissimo realizzare una forma di governo del premier che consenta al cittadino di essere comunque arbitro della scelta sui governi, con la loro legittimazione diretta, secondo un modello neo-parlamentare. Al riguardo non ripeto quanto scritto da Stefano Ceccanti nel numero 2 di Civiltà Socialista (p. 58-60). Salvo proporre una strada diversa per quanto riguarda la questione cruciale della legge elettorale. Ritengo infatti che il sistema elettorale basato su coalizioni di liste e premio di maggioranza (o di governabilità) sia da scartare assolutamente perché accresce enormemente il potere di coalizione e di veto delle componenti più estremiste e demagogico-populiste di ciascun polo (oltre a perpetuare con ogni probabilità il sistema delle liste bloccate).

Al riguardo occorre un'attenta riflessione a fronte dei fenomeni di forte radicalizzazione e polarizzazione della società, con l'estremizzazione e imbarbarimento di ogni posizione. Fenomeni dovuti a diversi fattori, non affrontabili in questa sede, dalle crisi economiche alla rivoluzione digitale, fattori che tolgono intermediazioni e riducono il ceto medio (la stessa radice etimologica dei due termini tradisce il loro legame causa-effetto, come ha acutamente osservato Antonio Preiti). Essi non riguardano certamente solo l'Italia, ma in Italia sono particolarmente rilevanti.

La radicalizzazione e polarizzazione della società restringe fortemente, a mio avviso, lo spazio politico per l'esistenza di un terzo polo a sé stante (al di là dei litigi e degli errori di Renzi e Calenda). Ma rende indispensabile la funzione del centro all'interno di ciascun polo (come componente interna o come alleato strategico). A tal fine diventa essenziale l'adozione di un sistema elettorale che favorisca l'affermazione di tali componenti. Si tratta del sistema a doppio turno di collegio, con ballottaggio tra i primi due candidati, se nessuno supera il cinquanta per cento al primo turno. Un sistema che spingerebbe i leader che aspirano alla nomina a premier (nomina che spetterebbe al leader al quale sia collegato il maggior numero di eletti) a presentare candidati che non hanno posizioni estreme, capaci di ottenere i voti degli elettori di mezzo (voti che valgono il doppio), e di vincere pertanto il collegio nel ballottaggio.

L'unica strada, a mio avviso, per cercare di costruire finalmente un bipolarismo più serio e maturo, basato su un partito liberal-conservatore di qua, e un partito riformista di là. Una strada che la stessa Giorgia Meloni dovrebbe prendere in seria considerazione se ha veramente intenzione di costruire il polo liberal-conservatore, anche perché ha cominciato a verificare che scegliendo candidati più adeguati il centrodestra è in grado di vincere i ballottaggi nelle elezioni comunali. (Dal punto di vista tecnico, non c'è da temere che questo sistema elettorale possa determinare una vittoria eccessiva di un polo, in caso di forte divario di consensi rispetto al secondo polo; infatti si può facilmente adottare un correttivo che preveda che il numero dei collegi uninominali sia pari, ad esempio, all'ottanta per cento dei seggi complessivi, assegnando una quota del venti per cento dei seggi ai migliori secondi nei collegi, eventualmente escludendo dal riparto di questa quota dei seggi i candidati del polo che abbia già conseguito più del cinquantacinque-sessanta per cento dei seggi complessivi; un correttivo valido anche per evitare circoscrizioni monocolore).

La modifica della forma di governo richiede anche di eliminare l'abuso ormai parossistico della decretazione d'urgenza, prevedendo una chiara corsia preferenziale per i disegni di legge ordinari del governo, e di varare un adeguato statuto dell'opposizione.

E dato che gli accordi di Giorgia Meloni con la Lega prevedono che il disegno di legge costituzionale sul premierato e quello ordinario sull'autonomia differenziata procedano di pari passo, è il caso di ribadire quanto già scritto sul n. 1 di Civiltà Socialista (p.90-94), cioè che l'autonomia differenziata è irrealizzabile senza una sede di raccordo tra Stato e Regioni e senza la modifica del titolo V con una clausola di supremazia statale che eviti il suicidio dello Stato.

Il Paese ha assoluto bisogno di riforme, auspicabilmente condivise, in grado di «assicurare istituzioni solide con compiti, responsabilità e poteri chiari», come afferma l'appello già citato promosso dall'associazione IoCambio che chiede «a tutti i partiti una prova di responsabilità e serietà, e di anteporre il bene dell'Italia a qualsiasi altra logica». Ma da quanto sembra emergere finora nel dibattito con la proposta del premierato elettivo da parte del governo e con l'abbandono di ogni proposta riformista da parte della segreteria del Partito democratico (a partire dalla tesi n. 1 dell'Ulivo del 1996 e dal testo Salvi sul premierato alla Commissione bicamerale D'Alema), è molto alto il rischio che si vada invece ad uno scontro insensato tra innovatori-sgangherati-apprendisti stregoni e conservatori-difensori della «Costituzione più bella del mondo».

 

 

(da www.linchiesta.it – 28 settembre 2023)

 

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Lucca, 28 settembre 2023

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