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Premierato, la madre di tutte le riforme è già nella palude: articoli da riscrivere e Meloni cambia gioco

di Claudia Fusani

Questa riforma produce poi una serie di paradossi.

Con quattro giorni di vita e l’iter parlamentare ancora da avviare, la “madre di tutte le riforme ” (cit. Meloni) è già nella palude.
Sbagliato. L’elezione diretta del premier è incompatibile con una democrazia fondata su un Parlamento libero. Il premier eletto dal popolo è più debole del suo eventuale sostituto della stessa coalizione.

La riforma ha in pancia solo cinque articoli, ma zeppi di paradossi e di vuoti: manca del tutto la legge elettorale che dovrebbe essere la spina dorsale di una riforma costituzionale che interviene sui poteri dello Stato e sul loro equilibrio. Tanto che ieri mattina, in un lucidissimo commento sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco arriva ad ipotizzare che in realtà il ddl sia un “ballon d’essai” per evitare di parlare d’altro. Della legge di bilancio e delle sue scarse risorse. O delle difficoltà in politica estera dovute alla guerra in Israele e al relativo fermento in tutto il Medioriente ma anche alla leggerezza del suo staff, vedi la telefonata con “comici” russi e le inopportune confidenze consegnate a quei due.

Per far ripartire la settimana la premier ieri ha messo a segno due mosse che le ridanno lustro e agibilità: il protocollo d’intesa con l’Albania per la gestione in territorio albanese di due centri per immigrati irregolari che potranno ospitare fino a tremila migranti arrivati via mare con i barconi a spese dell’Italia e sotto la nostra giurisdizione, un unicum assoluto su cui Bruxelles è stata informata ma non consultata; la cittadinanza alla piccola Indi Gregory per consentirle di lasciare la Gran Bretagna dove i medici l’hanno data per spacciata per tentare cure sperimentali a Roma al Bambin Gesù.
Un accordo diplomatico-sanitario gestito direttamente con il Vaticano.

Partiamo dalla riforma costituzionale. Per quattro giorni i cinque articoli del disegno di legge Casellati sono stati passati ai raggi X di tecnici, giuristi e costituzionalisti. A parte il numero 1 (abolizione dei senatori a vita di nomina presidenziale) e il 5 (entrata in vigore), gli altri tre sono come minimo da riscrivere. E non per il muro del No di giuristi e opposizioni più o meno ideologiche, della serie “giù le mani dalla carta” che impediscono da cinquant’anni di correggere la Carta per dare più stabilità all’azione di governo (67 governi in 75 anni di Repubblica). È stata la stessa ministra Casellati a dire: “Il testo non è blindato. Siamo disponibili a modifiche purché non sviliscano l’obiettivo della riforma”, cioè un premier più forte per governi più stabili.

Il punto fondamentale e da cui partire è questo: l’elezione diretta del premier non esiste in nessun Paese democratico perché non è compatibile con una democrazia. Detta in modo più tecnico: quando si tocca un equilibrio costituzionale bisogna costruirne un altro. Cosa che non sembra accadere nel ddl Casellati.
Avere un premier eletto dal popolo, quindi con una forte investitura, e conservare un Capo dello Stato dotato di poteri di gestione delle crisi è pressoché impossibile. Non è un caso che non esista al mondo un sistema simile. Se il premier è eletto direttamente dal popolo, e quindi forte di una grossa legittimazione, e il Capo dello Stato no, lo sbilanciamento è nei fatti. A differenza di Spagna, Gran Bretagna e Germania, sistemi di governo forte pur senza elezione diretta, il nostro futuro premier eletto dal popolo non potrà comunque chiamare le elezioni quando lo ritiene sciogliendo il Parlamento; non potrà revocare e nominare i suoi ministri; non viene investito personalmente dalla fiducia delle Camere che invece continuerebbero a darla al governo come organo collegiale.

Questa riforma produce poi una serie di paradossi. Il più evidente è che il premier “forte” perché eletto dal popolo può essere buttato giù senza correre il rischio di andare alle urne purché al suo posto arrivi uno della stessa maggioranza che ha vinto le elezioni e attuino stesso programma. La riforma non prevede l’automatismo tra la caduta dell’eletto dal popolo e lo scioglimento delle Camere. Questo meccanismo aumenterà la litigiosità tra le forze della coalizione (specie se molto sbilanciate nel consenso) perché aumenta il loro potere di ricatto. Non solo: il secondo paradosso è che il “secondo” premier è tecnicamente più forte del primo perché dopo il secondo ci potrà essere solo lo scioglimento delle camere.

Poi ci sono una serie di vuoti che rendono assai difficile valutare nell’insieme la riforma costituzionale. Manca soprattutto la nuova legge elettorale. Il ddl Casellati si limita a dire che chi vince prende il 55% dei seggi. Non si parla di ballottaggio (previsto in ogni democrazia in cui si elegge direttamente una carica di governo). Non è indicata la soglia minima per poter accedere al premio di maggioranza del 55%. E neppure si fa menzione del limite ai mandati.
Infine, come suggerisce Panebianco, la premier con questo ddl ricompatta le opposizioni, quelle ideologiche che dicono no a prescindere e quelle pragmatiche che vorrebbero una riforma e avrebbero accettato, per esempio, il sistema tedesco che in effetti conferisce maggiori poteri al premier. Con una simile proposta Meloni avrebbe spaccato le opposizioni. Invece ha fatto il contrario. Scelta consapevole? Oppure grave miopia? La riforma ha davanti a sé una strada lunga e tortuosa. Intanto palazzo Chigi va all’incasso – capiremo poi i dettagli, ad esempio: chi si occuperà dei rimpatri? – con l’operazione Albania.
In cambio il presidente Edi Rama ha staccato il biglietto d’ingresso in Europa. Bruxelles permettendo.

(da www.ilriformista.it - 7 novembre 2023)

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Testo del DdL Casellati

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