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La CGIL licenzia (anche) senza Jobs Act, perché il Jobs Act dà più diritti ai lavoratori e meno al sindacato

 

di Tommaso Nannicini

 

 

Di Jobs Act si continua a parlare a vanvera. Ma la realtà continua a fare il suo corso: Gibelli, l'ex portavoce della Cgil, non venne assunto con il Jobs Act. Se fosse stato così, dopo il licenziamento avrebbe avuto maggiori tutele.

 

 

Spoiler: checché ne scrivano tutti i giornali, compreso il Riformista nel suo editoriale di ieri, la Cgil non ha licenziato il suo storico portavoce usando il Jobs Act. Non solo: se a quel lavoratore si applicassero le regole del Jobs Act (cosa che non avviene perché lavora alla Cgil da prima del 2015), lui avrebbe più tutele di fronte a un'eventuale illegittimità del licenziamento.

 

Svolgimento. Nei giorni scorsi, lo storico portavoce della Cgil, Massimo Gibelli, ha spiegato di essere stato licenziato per “giustificato motivo oggettivo”

(leggi: ragioni economiche). Gibelli, che non è solo un professionista della comunicazione ma anche uno che di queste cose capisce, non ha detto che il suo datore di lavoro ha usato il Jobs Act per licenziarlo, perché avrebbe dichiarato il falso: ha solo detto che le norme sul giustificato motivo oggettivo sono state cambiate spesso negli ultimi anni, dalla riforma Monti-Fornero-Bersani al Jobs Act, e che la Cgil ha sempre contestato quei cambiamenti. Però, il suo riferimento sibillino è bastato perché i giornali titolassero che era stato “licenziato con il Jobs Act”. Repubblica, Corsera, QN, Huffington Post, Giornale: ci sono cascati pressoché tutti.

Ora, basterebbe dire che Gibelli, dopo un'esperienza a Bologna con Cofferati, è tornato in Cgil nel 2012 per capire che la notizia sparata dai giornali è priva di qualsiasi fondamento. Le norme sui licenziamenti individuali introdotte dal Jobs Act con il contratto a tutele crescenti si applicano solo agli assunti dal 7 marzo 2015 in poi: quindi non all'ex portavoce della Cgil. Detta così, siamo solo di fronte a una delle tante fake news sul Jobs Act.

Quante volte mi è capitato di ascoltare che “mio cugino è stato licenziato col Jobs Act”, salvo poi scoprire che il cugino era stato assunto prima del 2015, quindi a lui si applicavano le norme sull'articolo 18 rivisto da Monti-Fornero-Bersani e non il Jobs Act. Oppure che il cugino faceva il manager in banca e da sempre ai dirigenti non si applica la disciplina sui licenziamenti dei dipendenti a tempo indeterminato, quindi neanche il Jobs Act. Oppure, addirittura, che il cugino aveva la partita Iva, quindi non solo le norme sui licenziamenti non si applicavano alla sua situazione, ma come finta partita Iva avrebbe potuto ricevere benefici dal Jobs Act, come hanno capito quei rider che a Torino lo hanno usato in tribunale per vedersi estese le tutele del lavoro subordinato.

Insomma, niente di nuovo, solo un altro aneddoto nella lista delle “colpe” del Jobs Act che col Jobs Act non c'entrano niente. Questa volta, però, il caso regala un'ulteriore riflessione, legata alla natura del datore di lavoro: un'organizzazione sindacale.

Molto prima sia della riforma Monti-Fornero-Bersani sia del Jobs Act, nel nostro ordinamento la tutela reale dell'articolo 18 (cioè l'obbligo di reintegro sul posto di lavoro nei casi di licenziamento illegittimo) non si applicava alle cosiddette “organizzazioni di tendenza”, cioè ai sensi della legge 108 del 1990 a tutti quei “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”.

La ratio della norma era chiara: fatti salvi i casi di discriminazione, non posso obbligare queste organizzazioni a mantenere in servizio un dipendente che non ne condivide, o addirittura contrasta, le finalità. Nei casi di licenziamento illegittimo, prima del Jobs Act, la tutela per i dipendenti di sindacati o partiti politici consisteva in una mera indennità risarcitoria di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione.

Spettava al giudice decidere l'ammontare di questa indennità, ma in ogni caso entro un massimo di 6 mensilità.

Col Job Act – visto che per i neoassunti dal 2015 l'obbligo di reintegro restava solo nei casi di licenziamento discriminatorio o nei disciplinari in cui il fatto contestato non sussisteva, mentre per gli altri casi di licenziamento si provvedeva a estendere la tutela risarcitoria – si decise di togliere questo privilegio per le organizzazioni di tendenza, applicando anche a loro la disciplina degli altri datori di lavoro. Disciplina che nel 2015 prevedeva un'indennità massima di 24 mensilità e che oggi, con le successive modificazioni ma sempre in virtù del fatto che il Jobs Act ha rimosso l'esenzione a favore di partiti e sindacati, prevede un massimo di 36 mensilità.

Quindi, per farla corta, l'ex portavoce della Cgil, se fosse stato assunto dopo il 2015 e a lui si applicasse il Jobs Act, oggi potrebbe chiedere in giudizio fino a un massimo di 36 mensilità anziché 6! Traendone un indubbio vantaggio, con buona pace dei titoli dei giornali.

Insomma: le cose sono spesso più complesse di come le si racconta, come si accorgerà presto chi ha annunciato un referendum abrogativo su una riforma ampia e composita, con molte parti che vanno completate piuttosto che abrogate, o chi pensa di andargli a rimorchio per mancanza di idee e progetti. Di Jobs Act si continua a parlare a vanvera. Ma poi la realtà – a volte per fortuna, altre volte per sfortuna – continua a fare il suo corso. Cocciuta. Resiliente.

 

(da Il Riformista – 13 settembre 2023)

 

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