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La politica troppo fragile e il Parlamento da difendere

 

di Angelo Panebianco

 

Gli umori anti-politici diffusi in segmenti rilevanti dell'opinione pubblica hanno logorato le istituzioni rappresentative e ad approfittarne sono state le burocrazie, amministrative e giudiziarie

 

Due episodi della cronaca politica segnalano le difficoltà della democrazia italiana. C'è voluto un politico serio della vecchia guardia, Piero Fassino, per rivendicare di fronte ai suoi colleghi parlamentari la dignità del Parlamento e ricordarne a tutti ruolo e funzioni. Lo ha fatto in modo inusuale sventolando la sua busta paga ed esponendosi così alla classica obiezione demagogico- populista: lei guadagna più di tanti poveretti. Una obiezione che può essere fatta solo da chi (e sono tanti) nega al Parlamento, e quindi ai parlamentari, la dignità del ruolo e l'importanza della funzione. A qualcuno può sembrare improprio (o addirittura blasfemo) che si parli di soldi e buste paga mettendoli in relazione con il valore che si deve attribuire a una istituzione. Ma è un errore. Se una istituzione è forte perché rispettata, perché gode del generale riconoscimento della funzione che svolge per la collettività, nessuno si sogna di negare a chi ne fa parte una retribuzione adeguata e corrispondente all'importanza del ruolo. Tale da consentirgli di svolgerlo nel modo migliore.

E di garantirgli una autonomia che, almeno in teoria, dovrebbe metterlo al riparo da influenze esterne.

 

Dobbiamo metterci d'accordo. Qui quasi tutti si definiscono democratici. Se ne trovano ben pochi — solo alcuni estremisti di destra e di sinistra che stanno, come è giusto, nelle catacombe — che argomentino seriamente contro la democrazia. Non si può allora fingere di non sapere che, quali che siano le differenze fra le democrazie, non ci può essere democrazia senza Parlamento. È l'istituzione che l'alimenta e la sorregge. Quanto più è forte,e quindi rispettata, tanto più è in buona salute la democrazia. Tutti i movimenti contrari alla democrazia (nell'unica forma possibile, quella rappresentativa) hanno sempre preso di mira il Parlamento. In nome del «popolo», della «vera democrazia» e di altre chimere.

 

Da molto tempo, da almeno un trentennio, le funzioni del Parlamento sono state svilite e indebolite. Nel 1993 l'ondata giustizialista e anti-politica colpì l'articolo 68 della Costituzione togliendo garanzie che i costituenti avevano voluto per proteggere il Parlamento dalle aggressioni esterne e per assicurarne la centralità istituzionale. L'indebolimento del ruolo del Parlamento è andato di pari passo con il rafforzamento di certe prerogative del governo (una tendenza generale nelle democrazie contemporanee). Ma poiché quell'indebolimento, nel caso italiano, non dipendeva da riforme consapevoli volte a dare più poteri all'esecutivo, ma dal discredito che aveva colpito la classe politica nel suo insieme, esso ha anche favorito poteri politicamente irresponsabili, ossia apparati dello Stato, immuni ai controlli e alle sanzioni dell'elettorato, e ormai capaci di muoversi al di fuori dei vincoli che la Costituzione pone loro.

 

Si consideri l'ultimo colpo inferto al Parlamento: la riduzione del numero dei parlamentari. Non ha comportato i vantaggi economici che i suoi sostenitori, campioni di antiparlamentarismo, promettevano. In compenso, delle assemblee legislative ha compromesso la funzionalità.

 

Il secondo episodio riguarda la questione dei dossier che sarebbero stati raccolti su esponenti politici (ministri, ex presidenti del Consiglio eccetera) da parte di appartenenti agli apparati dello Stato. La politica, anche nelle democrazie, è un gioco duro e l'accumulazione di dossier sugli avversari è sempre stata praticata. In Italia come altrove. Ma se l'inchiesta giudiziaria accertasse che l'imbeccata non viene dalla politica, questa sarebbe un'ulteriore prova di quanto essa sia diventata debole a fronte di altri potentati.

 

Tutto si tiene: gli umori anti-politici diffusi in segmenti rilevanti dell'opinione pubblica hanno logorato le istituzioni rappresentative e ad approfittarne sono state burocrazie, amministrative e giudiziarie. Più si indeboliva la politica rappresentativa, più vari gruppi istituzionali acquistavano forza e capacità di muoversi autonomamente, scavalcando le fragili barriere costituzionali. Con il bel risultato che alla politica, debole ma che sta sul palcoscenico, si attribuiscono tutte le manchevolezze e tutte le colpe di ciò che non va mentre le inefficienze e le inadempienze, anche gravi, di cui sono responsabili le amministrazioni (di qualunque tipo)— la cui attività però si svolge dietro le quinte — non vengono per lo più stigmatizzate e nemmeno notate.

 

Se l'antipolitica fa male alla democrazia, ne compromette il funzionamento e si risolve in una profezia che si auto-adempie (denuncia, della politica, difetti che essa stessa ha contribuito a generare), è anche vero che l'antipolitica è collegata a una più generale sindrome — alimentata dall'invidia sociale — che riguarda la società nel suo complesso. In anni recenti abbiamo assistito alla diffusione dello slogan secondo cui «uno vale uno»: essendo la politica screditata, si riteneva che un politico esperto potesse essere facilmente sostituito dal primo passante. Costui, nella sua qualità di «cittadino», sarebbe stato in grado di fare, e magari meglio di lui, ciò che faceva quel politico esperto. I risultati sono stati tutt'altro che brillanti, ma non è affatto detto che siamo ormai immunizzati, che quel virus non possa ancora aggredirci. Anche perché, al fondo, si riscontra un più generale atteggiamento che non ha di mira solo la politica rappresentativa. Chi, usando creatività, capacità di innovare e duro lavoro, si afferma in qualunque campo, in qualunque professione, rischia spesso di finire additato come un parassita, uno sfruttatore del popolo. C'è un pezzo di società, non piccolo e comunque assai rumoroso, che svaluta e disprezza il talento altrui che esso non possiede. In questo senso l'antipolitica e l'antiparlamentarismo (e il principio dell'uno vale uno) sono un frammento di una più generale rivolta, tipica del populismo, contro le elite in qualunque ambito esse operino. Come se, accanto a persone che certamente ne fanno parte senza meritarlo, non ce ne siano altre che i meriti li hanno e la cui attività è essenziale per il benessere collettivo.

 

Ha naturalmente ragione chi pretende che le élite sociali non abusino dei loro privilegi. Così come ha ragione chi chiede che l'élite politica sappia emendare le disfunzioni che si riscontrano nei meccanismi rappresentativi (per esempio: quando verrà cambiata la nostra cattiva legge elettorale?). Ma né l'una né l'altra cosa possono essere ottenute se non si isolano coloro che della caccia alle élite, parlamentare e non, hanno fatto la loro professione.

 

(dal Corriere della Sera - 9 agosto 2023)

 

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