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Riforme: il treno è partito, con un gran numero di proposte

 

Di Sabino Cassese

 

Il treno delle riforme è partito con un gran numero di proposte: presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato, cancellierato. La discussione muove dai modelli da prescegliere, piuttosto che dall'analisi delle disfunzioni a cui porre rimedio. Vorrei, invece, passare in rassegna che cosa c'è da riformare, che cosa non funziona, così come un medico non parte dalla medicina da prescrivere, ma dalla diagnosi della malattia. Questa è la prima domanda a cui dare una risposta, per evitare di rimanere prigionieri della retorica riformista, retorica pericolosa perché giustifica il rinvio della messa in atto delle politiche, in attesa delle riforme.

Parto, dunque, dalla prima disfunzione del nostro sistema politico-costituzionale, quella che riguarda la mancata separazione dei poteri. L'articolo 16 della dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino, del 1789, proclamava: “Ogni comunità in cui non è prevista la separazione dei poteri, non ha una costituzione”.

Ora, in Italia, c'è commistione, non separazione dei poteri. Della funzione legislativa s'è in larga misura appropriato il governo. La funzione amministrativa o esecutiva è divenuta parzialmente di spettanza del Parlamento. La funzione giudiziaria è esercitata in forma espansiva, debordando dal compito proprio della giurisdizione.

La prova del primo spostamento sta nel numero dei decreti – legge: se ne approva uno per settimana. Nel ricorso ai decreti – legge convergono tre interessi.

Quello del governo a decidere subito, mettendo il Parlamento davanti al fatto compiuto, ad una norma già in vigore. Quello dei parlamentari ad utilizzare, per le loro richieste, uno strumento che deve essere approvato entro breve termine. Infine, quello dell'alta burocrazia, che per via parlamentare riesce a ottenere quello che lo stesso governo non aveva concesso.

La prova dell'usurpazione della funzione amministrativa da parte del Parlamento sta nei testi aggiunti ai decreti legge nella sede della conversione in legge. Questi sono in larga misura decisioni amministrative in veste legislativa, dettate dalle più varie corporazioni e dall'aspirazione ad approvare leggi auto-applicative, per sfiducia nell'amministrazione e nella burocrazia che “rema contro”.

La prova dell'esondazione giudiziaria, sia dell'accusa che della giurisdizione, sia dei pubblici ministeri che delle corti, sta nel fatto che ogni evento o decisione vede come attori principali pubblici ministeri o giudici. Una procura ha già avviato indagini per l'alluvione in Romagna, indagini che avranno come risultato di impegnare gli uffici giudiziari, rubare il tempo ad uffici amministrativi impegnati nel rimediare alle conseguenze di un evento eccezionale e finiranno per mettere sotto accusa Giove pluvio. Ancora una volta, sotto il manto dell'obbligatorietà dell'azione penale, vi sono l'assenza di senso della misura e il mancato rispetto del principio di proporzionalità di organismi che ritengono di dover assicurare il ruolo di tutori della virtù.

Se la diagnosi è esatta, i correttivi non sono complessi: non richiedono modifiche costituzionali, ma solo modifiche legislative o regolamentari. Il governo deve poter disporre di una corsia veloce per l'esame delle sue proposte di legge e i parlamentari poter riprendere la funzione legislativa, riappropriandosi dell'iniziativa, senza attendere il treno veloce dei decreti – legge a cui aggiungere, di passaggio, “vagoni e vagoncini”.

In secondo luogo, occorre che gli uffici di presidenza dei due rami del Parlamento filtrino le proposte per evitare che il legislatore interferisca quotidianamente con l'amministrazione. La distinzione tra atti con efficacia generale ed atti singolari deve ritornare chiara.

Per quanto riguarda l'ordine giudiziario, il rimedio deriva da quel principio che dovrebbe muovere qualunque giudice, quello di “self – restraint” anche sulla base di criteri stabiliti dal Consiglio superiore della magistratura che, senza interferire nell'azione giudiziaria, detti criteri e direttive, standard di azione per i magistrati.

Risolti i problemi della sovrapposizione e delle interferenze tra i poteri dello Stato, vanno affrontati i problemi che derivano dalle deficienze di ciascuno dei poteri. Anche qui bisogna partire dalla diagnosi.

Innanzitutto, dal Parlamento oggi escono, sia per iniziativa dei parlamentari, sia in sede di conversione di decreti – legge, sempre più numerose, decisioni che sono ben lontane dal modulo dell'atto generale e astratto che chiamiamo legge o norma e più vicine al modulo della decisione amministrativa o della sentenza, anche perché di difficile comprensibilità per i non addetti ai lavori. Quanto all'altra funzione del Parlamento, quella di controllo, essa ha subito, nel corso degli anni, un processo di obsolescenza, per cui si può dire oggi inesistente.

Il vertice dell'esecutivo, il governo, è robusto quanto all'investitura e ai poteri, debolissimo quanto alla durata e alla coesione. Gode di un'investitura parlamentare ed è stato dotato di poteri crescenti, in particolare quelli che derivano dalla titolarità dei rapporti internazionali del presidente del Consiglio dei Ministri. Ma l'efficacia è limitata. Governi transeunti come quelli italiani (68 compagini in 75 anni) non possono formulare ed attuare politiche.

Se si aggiunge la scarsa coesione interna delle coalizioni governative e delle compagini dei consigli dei ministri, ci si rende conto del motivo per il quale la politica soffoca le politiche.

Nell'apparato esecutivo del governo si annidano, poi, le maggiori difficoltà. Si tratta di un corpo di dimensioni maggiori, dove si sono andati accentuando i problemi, anche quale prodotto di una tendenza, da valutare positivamente, quale il grado di maturazione della nostra democrazia. Tutte le democrazie mature hanno dato voce a interessi collettivi numerosi, spesso tra di loro in contrasto, e l'organo esecutivo, chiamato a prendere la decisione, giorno per giorno, sui conflitti tra interessi pubblici è spesso indotto a rimanere inerte, o a procedere con cautela, e quindi lentamente, oppure a fare scelte errate. A questo si aggiungono gli squilibri interni alla macchina pubblica, quello territoriale, derivante dalla meridionalizzazione del pubblico impiego, e quello funzionale, derivante dal personale amministrativo prevalente sul personale tecnico.

Ma l'elenco non finisce qui. Si aggiungono la continuità delle norme e la loro sovrapposizione (il modello ministeriale attuale risale a Cavour; la Ragioneria generale dello Stato ha oggi un ordinamento che fu dato ad essa da de Stefani nel 1923; il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza vigente risale al periodo fascista, con le modificazioni apportate dalla Corte costituzionale); la debolezza della guida governativa della pubblica amministrazione (indirizzi e controlli sono generici, quindi inesistenti), in contrasto con la precarizzazione della dirigenza; i controlli (troppi controllori: Corte dei conti, Anac, procure; controlli preventivi e controlli concomitanti della Corte dei conti; vigilanza collaborativa dell'Anac); la paura della firma e la burocrazia difensiva; l'abuso d'ufficio; il difetto di selezione (pochi concorsi e molte stabilizzazioni; concorsi che non sono concorsi perché con posti riservati o con assunzione degli idonei; “spoils system”); processi di decisione sequenziali invece che in parallelo; cultura amministrativa che rispetto la procedura e ignora il risultato.

La funzione giudiziaria è in crisi: le cause pendenti erano qualche anno fa 6 milioni, ora ridotte a 4 milioni e 400mila. Questo indica uno stato fallimentare della giustizia, in larga misura derivante dalla politica malthusiana dello stesso corpo che amministra la giustizia.

Anche in questo caso, le soluzioni non passano per radicali riforme costituzionali. Il Parlamento deve dotarsi di strutture serventi, di una centrale della legistica, abituando i parlamentari a dare gli indirizzi e a rimettersi, per la redazione delle norme, a ben attrezzati uffici serventi. Quanto alla funzione di controllo, occorre che venga ripristinata l'interazione con la Corte dei conti, che era una volta l'”occhio del Parlamento”, mentre oggi svolge controlli preventivi e concomitanti, che, insieme con la vigilanza collaborativa dell'Autorità nazionale anticorruzione, costituiscono una vera e propria cogestione dell'amministrazione.

Per risolvere i problemi del governo bastano due modifiche costituzionali. Fissare una durata, ad esempio quinquennale, salvo interromperla con la tecnica della sfiducia costruttiva. Configurare il presidente del Consiglio dei ministri come organo sopra-ordinato ai ministri, in modo da poter tenere in riga sia le coalizioni, sia le compagini governative. Per far questo, basterebbe prevedere che la fiducia parlamentare sia rivolta al solo presidente del consiglio, con il potere di quest'ultimo di nominare e dismettere i ministri o di proporne la nomina e la dismissione al presidente della Repubblica.

Per quanto riguarda l'amministrazione, la lista dei rimedi è la seguente. Riformare l'amministrazione dalla parte degli utenti, non dalla parte dei dipendenti.

Ridare discrezionalità all'amministrazione, sopprimendo tutte le norme che la vincolano eccessivamente. Immettere nuova cultura organizzativa nell'amministrazione.

Riaffermare il principio del merito, per assicurare una burocrazia scelta meglio. “Seniority” e “Fast Stream” per l'accesso al vertice. Fare ricorso a

“checklist” e “standard” e pubblicizzare le “best practices”.

Per l'ordine giudiziario, una presidenza del Consiglio superiore della magistratura effettiva e continua del presidente della Repubblica, e una sua composizione molteplice, come quella della Corte costituzionale, tale comunque, da non dare la prevalenza ai componenti “togati”, anche per smentire l'erroneo mito secondo il quale la magistratura sarebbe dotata di autogoverno.

In conclusione, se si muove dalle malattie e non dalle medicine per debellarle, i rimedi, pur complicati, vanno cercati in limitate modifiche della Costituzione che non darebbero luogo alle diffuse preoccupazioni di verticalizzazione del potere esecutivo e ai timori dell'“uomo solo al comando”. Senza roboanti modifiche costituzionali, ma solo con quelle essenziali, partendo proprio dal rafforzamento del Parlamento, il sistema potrebbe ridiventare rappresentativo ed efficace.

Da ultimo, vanno ricordati due dati. In primo luogo, la lezione del passato. I referendum costituzionali del 2006 e del 2016 si accompagnarono alla modificazione del governo. In secondo luogo, i numeri della coalizione che appoggia il governo nel Paese: nelle elezioni del 2022 la coalizione di governo ebbe il 44% dei voti. Questo dovrebbe consigliare chi vuole la riforma costituzionale di tentare di raccogliere la maggioranza dei due terzi in Parlamento per evitare che la riforma venga sottoposta al vaglio popolare. È altamente probabile che solo in questo modo una modificazione possa essere raggiunta. Ma questo comporta che la riforma abbia in Parlamento un consenso più largo di quello di cui gode la maggioranza di governo.

 

(da Il Riformista – 30 maggio 2023)

 

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