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Obiettivo "democrazia governante": qualità della politica e riforme istituzionali

di Paolo Razzuoli

Il tema delle riforme istituzionali sembra tornare all'ordine del giorno dell'agenda politica, a seguito dell'iniziativa assunta dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Naturalmente nessuno può al momento sapere se le forze di maggioranza intendono realmente mettere in campo una iniziativa seria, almeno potenzialmente idonea a produrre effetti veri, oppure se si tratta della solita fuffa propagandistica.
Delresto, che i temi istituzionali rappresentino un terreno propagandistico per i partiti non pcostituisce certo una novità; ed in una certa misura è anche fisiologico poiché la propaganda è parte della democrazia: "è la democrazia bellezza...."

Delresto il tema delle riforme istituzionali ha attraversato, se pur con diverse sottolineature, l'intero arco della storia repubblicana.
La scelta del modello di repubblica parlamentare con governi deboli, fu molto dibattuto, ed ha incontrato, sin da subito, le perplessità di illustri giuristi Padri Costituenti. Cito Piero Calamandrei: “…Credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto della Costituzione…? Il governo parlamentare è un vecchio sistema che ha avuto sempre come presupposto l’esistenza di una maggioranza omogenea, fondamento di un governo stabile…”. Ma in caso di governi di coalizione, “allora bisognerà cercare strumenti costituzionali che corrispondano a questo diverso presupposto”. Per questo Calamandrei aveva proposto una Repubblica presidenziale “o perlomeno a un governo presidenziale”, osservando che di questo fondamentale problema della democrazia, cioè la stabilità del governo, nel progetto costituzionale non c’era quasi nulla”.

Certamente il tema delle riforme, se pensate al fine del raggiungimento di una più efficace ed efficiente "democrazia governante", è di grande importanza e, pertanto, va affrontato con grande serietà, equilibrio e saggezza.
Per non cadere nel solito deprimente déjà vu la maggioranza in primo luogo, ma tutte le forze politiche responsabili, dovranno impegnarsi in un dibattito vero, sfuggendo alla tentazione di pensare le riforme quale strumento per mettere "il cappottino" a qualcuno, ma quale ripensamento del nostro assetto istituzionale, considerato complessivamente, e calato nella temperie che sta assumendo la vita democratica nel tempo odierno.

Da tale postulato discende l'imprescindibilità dell'intreccio fra qualità della politica e riforme istituzionali. Credo che sia sulla coerenza di questo binomio che si giochi l'esito di qualsiasi disegno riformatore. Nodo che va sciolto e chiarito senza equivoci, anzitutto per individuare le autentiche cause dei problemi ed anche, ovviamente, per evitare di imputare all'uno le responsabilità dell'altro. E per evitare la sensazione, serpeggiante nell'opinione pubblica, che la focalizzazione sulle riforme istituzionali nasconda in realtà il desiderio di distrarre l'elettorato verso altre tematiche maggiormente sentite e che non si riescono ad affrontare. Insomma, la politica dovrà mettere in campo una serietà che sgombri qualsiasi dubbio sul fatto che le riforme offrano la possibilità di mettere in campo una "gigantesca distrazione di massa".

L'Italia ha sicuramente bisogno di riforme istituzionali, ma affinché queste possano realmente consentire un "cambio di passo", occorre che vengano coniugate con uno sforzo di rilancio della qualità della politica. Sono convinto che buone regole possano aiutare anche la qualità della politica; ma non possono certamente servire di fronte ad atteggiamenti refrattari di una lettura seria e per quanto possibile oggettiva dei processi che stanno indebolendo la nostra vita democratica.

Venendo ora a qualche scampolo di storia, è ben noto che le prime iniziative politiche per riformare le nostre istituzioni risalgono agli anni '80, al tempo del governo Craxi, con la commissione guidata da Aldo Bozzi.
Non è un tempo casuale. La Prima Repubblica si reggeva su governi deboli e partiti forti. Negli anni '80 si avvertirono i primi sintomi della crisi dei partiti di massa e si cercò di correre ai ripari.
Negli anni '90 ci fu la Commissione D'Alema ed il celebre "patto della crostata", che poi non ebbe alcun esito concreto.
Poi c'è stata la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione operata dal centro-sinistra, e confermata dal referendum popolare.
Quindi la proposta dell'epoca berlusconiana, bocciata con il referendum confermativo del 2006, ed infine la proposta del governo Renzi, anch'essa naufragata con il referendum confermativo del 2016.
Più di recente, ha invece avuto esito positivo il taglio dei parlamentari propugnato dai grillini.

Insomma, finita l'epoca dei governi deboli ma dei partiti forti, ci siamo trovati con le medesime istituzioni e con i partiti evaporati: insomma, istituzioni deboli e partiti deboli. Un mix che non giova certo ad una democrazia rappresentativa che sta sempre più pericolosamente scivolando verso una sorta di democrazia recitativa.

La vicenda delle riforme istituzionali italiane qualche domanda la impone: perché nonostante il tanto tambureggiar di propaganda sinora tutte sono fallite?
Ebbene, tento una risposta, in accordo con il pensiero di Angelo Panebianco, espresso in un articolo apparso sul Corriere della Sera in data 14 maggio 2023 e pubblicato anche su questo sito.
Parlare di presidenzialismo, e dire che si tratta di mettere fine alla endemica instabilità dei governi (la grande piaga della Repubblica italiana fin dalla sua nascita) non è sufficiente. Occorre andare più in profondità, cercando di immaginare un disegno istituzionale complessivo e cercando di capire le dinamiche su cui in questi decenni si sono mossi i grandi centri di interessi.
Credo abbia ragione Panebianco nel dire che Per capire il problema conviene partire da tre domande.
La prima: come mai le uniche due rilevanti riforme costituzionali che la Repubblica abbia conosciuto, quella del titolo Quinto (sui rapporti fra centro e periferia) e la riduzione del numero dei parlamentari, non incontrarono forti resistenze? La risposta è che entrambe le riforme andavano nella direzione — che, per ragioni diverse, piaceva a tanti — dell'ulteriore indebolimento di un «centro politico» (governo e Parlamento), già di per sé tradizionalmente debole.
La seconda domanda: perché quella tentata da Matteo Renzi e bocciata da un referendum popolare nel 2016 era una buona riforma? La risposta è che, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo simmetrico (due camere con uguali poteri) sia il titolo Quinto, avrebbe rafforzato, indirettamente ma sicuramente, la forza del governo centrale.
La terza domanda: perché quel progetto suscitò l'opposizione di un gran numero di gruppi fra loro eterogenei (qualcuno ricorderà, ad esempio, che Magistratura democratica prese pubblicamente posizione contro)? La risposta è che in Italia ci sono molti gruppi che temono un rafforzamento del governo perché ciò indebolirebbe i loro poteri di veto sulle politiche e sulle decisioni pubbliche.

 

A questo punto credo si impongano alcune riflessioni:
Primo. - Pur in presenza di una diffusa convinzione sulla necessità di rafforzare le strutture di governo del Paese (necessità peraltro anche attestata da alcuni rapporti Censis), alla prova dei fatti non appare poi così vero. Infatti, ogni qualvolta se n'è presentata l'occasione, l'elettorato ha bocciato le riforme in tal senso. Evidentemente coloro che non vogliono il rafforzamento del governo che, inevitabilmente, limiterebbe la loro capacità di veto, hanno una forte capacità di condizionare l'elettorato.
Secondo. - Non può sfuggire la strumentalità con cui si sono mosse le forze politiche ed i loro leader più rappresentativi. Ad esempio coloro che oggi si fanno paladini del presidenzialismo, in nome della governabilità, sono stati in prima linea nell'opposizione alla riforma Renzi, che pur andava proprio in quella direzione.
Terzo. - In presenza di progetti di riforma costituzionale c'è sempre stato qualcuno che, in nome della "Costituzione più bella del mondo" e della presunta "svolta autoritaria", ha urlato al pericolo per la democrazia. E' un clamoroso falso storico: i pericoli per la democrazia vengono dai governi deboli e non dai governi forti.
Quarto. - Il problema della inefficienza delle strutture di governo non proviene solo dal governo centrale. Giustamente Renzi aveva affrontato il tema del Titolo V della Costituzione e quello delle autonomie locali con la legge di riforma delle province. Il tema delle riforme delle strutture di governo va affrontato nel suo assieme; qualsiasi altra strada non porterà a nulla. Non può essere un problema di scambio politico: non ha senso mettere assieme il presidenzialismo e l'autonomia differenziata.
Quinto. - Sembra che anche questa volta si vogliano alimentare i soliti equivoci. Da una parte si racconta all'opinione pubblica che il presidenzialismo è sinonimo di decisionismo (e non lo è, anche se è dai tempi di Bettino Craxi che l'equivoco viene alimentato). Dall'altra si vedranno quelli che si travestiranno da partigiani, cantando Bella ciao, e marciando in difesa della «costituzione nata dalla resistenza».
Sesto. - Io penso che qualsiasi riforma non possa prescindere da valutazioni circa lo stato di salute della nostra democrazia. Direi che è condivisa una certa preoccupazione per la deriva populista che stanno assumendo le istituzioni di democrazia rappresentativa un po' ovunque nel mondo occidentale, che di tale esperienza è la culla e il motivo di giusto vanto. I segni di questa deriva sono molteplici; vediamone alcuni: Disinteresse per la politica e astensionismo; radicalizzazione dello scontro e delegittimazione dell’avversario; volgarizzazione del linguaggio; insofferenza per le procedure della vita democratica; crisi dei partiti di massa e personalizzazione della politica; maldestro uso dei media e dei social. Su quest'ultimo punto mi soffermo un attimo per sottolinearne la forza di penetrazione in un'epoca fortemente condizionata da istanze populiste così chiaramente sintetizzate - oltre mezzo secolo fa - dal Prof. Nicola Matteucci: «idee semplici» e «passioni elementari, in radicale protesta contro la tradizione e, quindi, contro quella cultura e quella classe politica che ne è l'espressione ufficiale». Con il populismo, sostiene Matteucci, si coagula una nuova sintesi politica, che non può essere definita, secondo il comune linguaggio parlamentare, conservatrice o progressista, perché supera e mantiene entrambe le posizioni, affermando da un lato una volontà autoritaria, che nella fretta del fare è sempre più insofferente degli impacci e delle remore imposte dalle procedure costituzionali di una democrazia moderna, e dall'altro, quando arriva al potere, manipola le masse con slogans genericamente rivoluzionari.”
Settimo. - Pur sapendo di attrarmi molti fulmini, dico che di fronte ad una siffatta evoluzione degli umori dell'elettorato, ed in assenza di strutture (come i partiti di massa) che riuscivano ad organizzarlo ed a dargli sbocchi politici chiari, non mi pare il caso di pensare ad elezioni dirette di organi monocratici, sia si tratti del presidente della Repubblica, o ancor peggio del presidente del Consiglio. Sappiamo a quali situazioni può portare un elettorato facilmente condizionabile dalle lusinghe di una certa politica e dei suoi intrecci con il circo mediatico e dei social: non mi pare il caso di esporci a certi rischi, posto anche che se il fine è veramente la "democrazia governante", ci sono ottime alternative per raggiungerlo, ad esempio sulla falsa riga della proposta Renzi del 2016, i cui contenuti sono ben noti e comunque facilmente reperibili su Internet per cui non vi indugio. A scanso di malintesi, non mi riferisco all'attuale proposta del Terzo Polo (il sindaco d'Italia, che sinceramente non capisco).

Avviandomi a concludere, il punto di partenza credo debba essere quello di ottenere l'obiettivo di una capacità di governo ben più efficace ed efficiente di quella attuale. Ma è un obiettivo che intreccia gli assetti istituzionali con la qualità della politica. Ad esempio, gli infiniti lacci e lacciuoli in cui si imbatte chiunque voglia intraprendere qualcosa, non riguarda certo gli assetti istituzionali; le abnormi intrusioni del potere pubblico in quasi tutte le attività (vedi spesso le migliaia di autorizzazioni richieste) non riguardano certo le riforme istituzionali bensì quelle normative.
Quindi il tema va visto nei suoi molteplici livelli, anche se l'aspetto della stabilità dei governi è certamente un tema vero, che non intendo certo sottovalutare.
E’ il ragionamento che la premier ha fatto incontrando le opposizioni: il nostro è un sistema caratterizzato da una fortissima instabilità che è alla base di molte criticità e indebolisce l’Italia anche all’estero, visto che ai summit internazionali il premier di turno viene sempre considerato un interlocutore provvisorio e quindi un’anatra zoppa. Negli ultimi venti anni noi abbiamo avuto dodici governi, la Francia quattro presidenti e la Germania tre cancellieri. Ma più un governo ha un orizzonte breve, più tenderà a dilatare la spesa corrente e a non fare investimenti strutturali” – ha detto Meloni – e “tutti sappiamo che gli investimenti hanno un moltiplicatore e la spesa corrente un altro”. Non a caso l’Italia è cresciuta molto meno di Francia e Germania. Ergo: c’è qualcosa che non funziona alla base del sistema, e questa è la ragione per cui le riforme istituzionali sono una priorità.

tutto vero. Ma cosa pensava Giorgia Meloni quando in occasione del referendum del 2016 faceva opposizione al progetto riformatore di Renzi?

Comunque già nel 2017 ebbi modo di scrivere che era necessario riprendere il filo del discorso. Non ho cambiato opinione. Le riforme sono necessarie, ma non possono essere issate come una bandierina identitaria. Occorre estrema serietà nell'individuazione dei motivi delle inefficienze, ed una estrema coerenza nell'individuazione dei rimedi.
Ed ancora, occorre sapersi spogliare degli interessi elettorali contingenti, in favore di una autentica capacità di lettura della temperie politico-culturale complessiva in cui siamo immersi.

Quidni niente slogan identitari, ma la fatica del confronto e la serietà e coerenza dei comportamenti. Solo così si potrà sperare di non vedere l'ennesimo "déjà vu".

Lucca, 18 maggio 2023

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