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Le riforme tra paure e scetticismo

 

diAldo Cazzullo

 

Non dovremmo avere paura dell’elezione diretta del capo dello Stato. L’elezione diretta del premier invece non esiste in nessun Paese del mondo

 

 

Quando Charles de Gaulle impose alla Francia la svolta presidenzialista, uscì un pamphlet che monopolizzò la discussione pubblica. Si intitolava «Le coup d’État permanent». L’autore considerava la riforma come un golpe ripetuto tutti i giorni, e giudicava i nuovi meccanismi costituzionali incompatibili con la democrazia. Il suo nome era François Mitterrand; e grazie a quella riforma e a quei meccanismi sarebbe stato presidente della Francia per quattordici anni.

E dopo di lui avrebbe governato per altri cinque anni un altro socialista, François Hollande. Che ha tenuto a battesimo come ministro dell’Economia l’attuale presidente, Emmanuel Macron. Basterebbe questo a ricordare che il presidenzialismo non è una «cosa di destra». Rappresenta un investimento sulla politica. Nel momento in cui la politica conta sempre meno, sovrastata dalla finanza internazionale, dai poteri globali, dai padroni della Rete, gli elettori fanno una scelta, con la possibilità di revocarla dopo cinque o anche solo quattro anni. In America, a parte il Canada il cui capo di Stato è re Carlo, tutti i Paesi importanti sull’esempio degli Usa eleggono direttamente il loro presidente (nel dopoguerra, sette democratici da Truman a Biden e sette repubblicani da Eisenhower a Trump: anche il Nuovo Mondo invecchia). In Europa sono eletti dal popolo i capi di quasi tutti gli Stati che non hanno un re, dal Portogallo alla Polonia, dall’Irlanda all’Austria, dalla Slovenia alla Repubblica Ceca. A differenza che negli Usa, dove il presidente è il capo del governo, nei Paesi europei le due figure sono distinte; anche in Francia, che è lo Stato dove pure il presidente conta di più. Non è vero che un capo dello Stato eletto dal popolo debba per forza essere al vertice dell’esecutivo. Si può affidare ai cittadini la scelta di un presidente dotato di poteri di rappresentanza e di equilibrio, come in Italia. Non solo si può; lo si fa.

L’unica cosa che non esiste in nessun Paese del mondo è l’elezione diretta del premier. Ci hanno provato in Israele e hanno cambiato idea. Nel Regno Unito vince un partito, non un uomo; diventa premier il capo del partito che ha vinto; ma il premier può essere cambiato, in questa legislatura i conservatori ne hanno avuti tre. In Germania un gigante come Helmut Kohl divenne cancelliere non in seguito a un voto popolare ma in seguito a un voto parlamentare, per il cambio di alleanze dei liberali, che abbandonarono i socialdemocratici per unirsi a Cdu-Csu, insomma i democristiani.

Ovviamente noi italiani possiamo fare eccezione, e inventarci il premierato o il «sindaco d’Italia». Di sicuro non dovremmo avere paura dell’elezione diretta del capo dello Stato, senza per questo negare che i presidenti eletti per sette anni dal Parlamento abbiano lavorato bene, nel caso poi di Sergio Mattarella benissimo.

Diciamoci la verità: la discussione sulle riforme è segnata dallo scetticismo. Il retropensiero è che alla fine non se ne farà nulla. Troppa distanza tra destra e sinistra, interessi diversi anche all’interno delle coalizioni; e poi la mazzata finale del referendum confermativo, che ha già bruciato la riforma Berlusconi e quella Renzi.

Invece la questione esiste. E non riguarda solo i leader in campo oggi (chi l’ha detto che vincerebbe la destra?), bensì il sistema Italia e le generazioni future.

In Italia la politica è troppo debole. Non suscita passioni, non attira competenze. I giovani, tranne eccezioni, non ne sono affatto attratti. La partecipazione diminuisce a ogni turno elettorale. Uno dei motivi è evidente: dal 2006 una legge elettorale che lo stesso autore definì «una porcata» non consente agli elettori di scegliere gli eletti. La legge fu poi definita incostituzionale; ma il sistema delle liste bloccate, compilate nelle segreterie dei partiti, è rimasto.

L’altra grande questione è la stabilità. Le maggioranze fragili, i valzer dei governi espongono drammaticamente un Paese già indebitato e fragile di suo ? deficit robusto, crescita economica debole, disastro demograffico ? alla speculazione internazionale.

Il sistema ha bisogno di essere rafforzato. E non è vero che una politica forte violi le garanzie e le libertà. È vero il contrario. Quando la politica non sa decidere, non dà risposte alle necessità dei cittadini, non fa rispettare le regole ai padroni della Rete, non fa pagare le tasse alle multinazionali straniere e ai compatrioti miliardari, non tiene il passo della società, è allora che la democrazia entra in crisi, perché il popolo ha smesso di crederci.

 

(dal Corriere della Sera – 12 maggio 2023)

 

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