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Cancel culture, i nuovi Talebani sono arrivati fra noi

Di Benedetta Frucci

È il 12 marzo 2001 quando la furia ideologica dei Talebani si scaglia contro le statue dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, costruite nel terzo secolo dopo Cristo. Il verdetto? Colpevoli di incarnare idoli preislamici, da abbattere.
19 anni dopo, negli Stati Uniti d’America, gruppi di attivisti del movimento Black Lives Matters distruggono le statue raffiguranti Cristoforo Colombo a Richmond, in Virginia, e a Minneapolis, in Minnesota. La sua colpa? Il razzismo verso i nativi americani.
Poco dopo, il 7 luglio 2020, appare su Harper’s Magazine un appello firmato da 150 fra i più celebri intellettuali del mondo che condanna la cancel culture. Fra questi, Salman Rushdie, Francis Fukuyama e le scrittrici femministe J. K. Rowling, Margaret Atwood, l’editorialista del New York Times Bari Weiss. Qualche giorno dopo, Bari Weiss annuncia il suo addio alla testata americana, costretta a licenziarsi. Nella lettera pubblicata sul suo sito, scrive: “Twitter non è nella gerenza del New York Times. Ma è diventato il suo vero direttore”. Denuncia un clima di caccia alle streghe in redazione, le accuse di razzismo da parte dei colleghi, le minacce di morte che arrivano da giornalisti e utenti sui social network.
Soprattutto, mette allo scoperto il nuovo metodo usato nella redazione: se un articolo rischia di provocare indignazione, è cestinato. Se un giornalista osa raccontare una realtà che non piace agli utenti, licenziato.

J.K. Rowling, la creatrice di Harry Potter, non è certo un brillante esempio di conservatrice: femminista convinta, è stata sottoposta a quella che è forse la storia di gogna mediatica più violenta degli ultimi anni perché accusata di aver affermato l’esistenza del sesso biologico. Nella neolingua, reato di transfobia. Per queste sue posizioni, la Rowling è oggetto non solo di insulti, ma anche di vere e proprie minacce di morte fino alla creazione di un hashtag virale su Twitter, #RIProwling, Il New York Times in un video promozionale di lancio della campagna di abbonamenti sprona a cancellarla chiedendo ai suoi lettori di immaginare Harry Potter senza la sua creatrice, la Warner Bros, nello spin off Animali Fantastici, cancella il suo nome, relegandolo in piccolo, alla fine dell’elenco di citazioni.

Ma J.K. Rowling non è la sola femminista finita vittima della cancel culture. Kathleen Stock, docente di filosofia dell’Università del Sussex, lesbica, è costretta a licenziarsi in seguito a una feroce campagna di odio organizzata contro di lei. La sua colpa, aver ribadito la differenza fra identità di genere e sesso biologico e sostenere che il cambio sesso non dovrebbe essere permesso ai minori. Di qui, l’inizio della gogna: una lettera di 600 accademici che chiede la revoca del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, il sindacato dei docenti che ne chiede le dimissioni, ronde di studenti con passamontagna ne chiedono il licenziamento con l’accusa di transfobia, fino a costringerla alle dimissioni.

Ma se la gogna investe le persone, sorte migliore non tocca alla letteratura, alle opere d’arte, ai film. Via col vento, il capolavoro cinematografico di Victor Fleming, è ambientato in una società schiavista che fortunatamente non è più la nostra. Eppure, anziché contestualizzarlo storicamente, per i nuovi censori merita il bollino rosso. E così, HBO lo rimuove dal catalogo.
“Ho avvertito i miei editori che se cambieranno anche solo una virgola in uno dei miei libri, non vedranno mai più una mia parola. Mai! Mai!”. Disse Roald Dahl. Chissà come reagirebbe ora, scoprendo che le sue opere sono state riscritte da una casa editrice inglese, che le ha epurate da parole “offensive” quali grasso, brutto.
Agatha Christie ha subito lo stesso destino: la sua colpa, utilizzare personaggi troppo caratterizzati dall’etnia. Ma se in Gran Bretagna si censurano libri, in Canada si estirpa il problema alla radice.
Una scuola dell’ Ontario ha organizzato un rogo dove sono stati bruciati 30 libri a causa di presunti contenuti razzisti nei confronti dei nativi americani, fra cui il pericolosissimo “Asterix e gli indiani”.
Le opere d’arte non vengono risparmiate: il Guardian si è scagliato contro Picasso, colpevole di misoginia, con un articolo dal titolo “dovremmo cancellare Picasso?”. La Tate Gallery di Londra ha rinominato il quadro di Cezanne The Negro Scipio. Si chiamerà solo Scipio.
Neppure i cartoni animati sono esenti dalla scure: la Disney negli anni si è resa grande interprete della cancel culture, bollinando con un’avvertenza speciale titoli come gli Aristogatti, Lilli e il vagabondo, Il libro della giungla: razzisti. E ancora, opere teatrali, codici di linguaggio fra i dipendenti imposti dalle aziende: il meccanismo illiberale si ripete sempre uguale. Una nuova religione, la cancel culture, ha contagiato intere università, giornali, aziende e artisti. Per chi non è allineato, la pena è la cancellazione. Si negano la storia, la libertà d’opinione, finanche la biologia. Si processa l’arte, si abbattono le statue, si censurano i libri. I nuovi Talebani insomma, sono arrivati fra noi.

(da Il Riformista - 3 maggio 2023)

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