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Sangue, merda e Terzo Polo - Il racconto grottesco e impolitico di un fallimento tragicamente politico

di Carmelo Palma

Chissà se è nato prima l’uovo o la gallina, prima il malvezzo dei giornalisti di rappresentare la politica come una commedia dell’arte o un’opera dei pupi o prima l’assuefazione dei politici a farsi rappresentare – e ad autorappresentarsi – come tanti Zanni e altrettanti Orlando, un’immensa compagnia di giro di maschere e marionette, impegnata a improvvisare frizzi e lazzi su esili canovacci o a incrociare le lame di latta in infiniti duelli di amore e di virtù.

Azzarderei che sia l’egemonia dell’infotainment e non il narcisismo dei potenti o aspiranti tali a condannarli a rispondere (sventurati) all’«Americà, facce Tarzan», che è il modo più comodo e redditizio con cui l’informazione dalla schiena dritta adempie quotidianamente alla propria imprescindibile funzione democratica contro gli arcana imperii. Ma è un discorso che porterebbe lontano e, probabilmente, in zone infrequentabili per chi voglia sottrarsi all’accusa di attentare alla libertà dell’informazione, che è un feticcio pure più intangibile della rinomatissima autonomia della magistratura.

In ogni caso, per fermarsi più modestamente alle conseguenze, senza risalire alle origini di un meccanismo che sta conformando il funzionamento della democrazia italiana a quello dello showbiz mediatico-politico (showbiz peraltro povero e sfigato), in questi giorni abbiamo avuto una dimostrazione spettacolare di questo fenomeno nella rappresentazione (e autorappresentazione) dell’esplosione del Terzo Polo e della rottura tra Renzi e Calenda.

Si possono avere le più varie opinioni – e mi pare che Linkiesta ne stia raccogliendo di molto diverse e plurali sulle ragioni e sui torti di ciascuna delle parti e sul contributo che protagonisti e comprimari hanno offerto al proprio sputtanamento. Si può avere un’opinione buona o cattiva della moralità e della coerenza di Renzi e di Calenda, della furbizia dell’uno e dell’intemperanza dell’altro o della capacità di entrambi di corrispondere responsabilmente agli impegni che si erano presi con due milioni e mezzo di elettori.

Quello che però onestamente non si può fare è raccontare questo scontro come una sorta di rissa di strada, senza altro contenuto che quello di volere essere il capo del rione. Per tutti i giornali italiani – per la precisione per quasi tutti – si è semplicemente giunti al redde rationem tra i due galli del pollaio centrista. Eppure era chiaro da mesi che il problema – ripeto: qualunque cosa si pensi circa la soluzione – era gigantesco e oggettivo e riguardava il punto su cui sono falliti in questi ultimi trent’anni tutti, dicasi tutti i tentativi compiuti nel mondo liberaldemocratico per fare un vero e autonomo partito di un’area di opinione diffusa ed esigente, storicamente refrattaria all’impegno pubblico e piuttosto incline al mugugno privato, ripetutamente scomposta e ricomposta in formule elettorali rovinose o fortunate (le principali: Lista Bonino 1999, Scelta Civica 2013, Azione-Italia Viva 2022), tutte dissoltesi nello spazio di un’elezione, a prescindere dal risultato conseguito.

I liberaldemocratici italiani, uti singuli, nel frattempo hanno dato buone lezioni di pedagogia civile ed economica e hanno tentato di spiegare agli altri come si sta al mondo, ma non hanno mai accettato di capire come si sta in politica con un’ambizione diversa da quella della neutralità tecnocratica o della rendita parassitaria, sempre con un piede dentro e un piede fuori i confini dei partiti altrui e con una vocazione al marginalismo retribuito con seggi o incarichi ad honorem, che ne ha fatto i cespugli perfetti a destra come a sinistra, i pennacchi da esibire da una parte o dall’altra come prova di serietà, di pluralismo o di attenzione ai contenuti.

Le poche prove di autonomia liberaldemocratica sopravvissute alla prova delle urne non sono sopravvissute alla prova del partito, perché nessuno si era mai spinto finora oltre le colonne d’Ercole del micro-leaderismo personalistico, del situazionismo politico-elettorale e dell’anche oggi decidiamo domani.
Il divorzio tra Azione e Italia Viva è un tentativo fallito (nuovamente: non mi importa, qui, discutere ragioni e torti), ma è stato questo tentativo ed è fallito su questo.

Cavillare sulla incomprensibilità di uno scontro tra due leader che sembrano d’accordo su tutto, pure ammettendo e non concedendo che questo sia vero, è poi politicamente una prova di malafede giornalistica e di ruffianeria politica da Guinness dei primati: se il progetto non era quello di presentare emendamenti comuni al decreto milleproroghe o alla legge di bilancio, ma di costruire un partito con ambizioni elettorali a doppia cifra per le prossime europee e una trincea di resistenza al bipopulismo perfetto per l’intera legislatura, come si fa onestamente a considerare irrilevante, dal punto di vista politico, la disponibilità di bruciarsi o meno i ponti alle spalle o l’esigenza di conservare o meno vie di fuga?

Insistere poi sulla diversità e sullo scontro dei caratteri di Renzi e di Calenda, riportando a un dato soggettivo, psicologico e perfino fisiognomico una diversità del tutto oggettiva di idee, convinzioni e ambizioni sarebbe come minimo – direbbero quelli che parlano bene – un cattivo servizio reso alla comprensione del pubblico degli affezionati lettori e telespettatori del circo politico-mediatico. È invece – dicono quelli che parlano male, come me – un modo disonesto per rimuovere il sangue della politica e per rivenderne solo la merda.

(da www.linchiesta.it - 15 aprile 2023)

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