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Legge cosiddetta “bavaglio” non è censura ma carenza di professionalità: disputa tra garantisti e giustizialisti nasconde vero conflitto

 

Di Catello Vitello

 

Montesquieu diceva: «Quando l'innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà». Eppure, a distanza di secoli e dopo un'evoluzione democratica che ci ha condotto all'attuale Stato di diritto, ci ritroviamo ancora oggi ad assistere al dibattito tra garantisti e giustizialisti, nonostante questa divisione sia stantia e certamente anacronistica perché, dopo l'entrata in vigore della Carta costituzionale e del codice del 1988, non essere garantisti significa essere contro uno dei diritti dei cittadini ampiamente riconosciuto dalla nostra Costituzione.

Questa disputa, in realtà, è utile solo a mascherare il vero conflitto, quello tra poteri dello Stato.

Fomentato dalla volontaria abdicazione della politica ad esercitare il suo ruolo e dalla graduale sfiducia nei partiti da parte dei cittadini, il ruolo di supplenza della magistratura (iniziato già prima del 1992) ha portato a ritenere che questa abbia una funzione politica, slegata dalla mera interpretazione della legge. Suggestione alimentata dall'attuale governance della magistratura perché il numero dei magistrati presenti nei ministeri, sommati ai membri togati del CSM, porta a una forma di “autogoverno totale” che non corrisponde al modello costituzionale e che trasforma l'indipendenza in autoreferenzialità.

Ma, continuando così, si rischia che la legge diventi un “accessorio” superabile, perdendo la sua funzione di garanzia e, di conseguenza, portando a chiedersi

– come ha fatto il Ministro Crosetto la settimana scorsa – “chi sorveglierà i sorveglianti”.

In realtà, la magistratura non ha una funzione “antimaggioritaria”, perché la nostra democrazia presuppone la netta divisione dei poteri e perché non sono in atto tentativi di eversione dell'ordine costituito che possano giustificare una reazione del sistema. E men che mai ha una funzione “moralizzatrice”, perché – ha ragione Luciano Violante – i magistrati non sono guardiani dei costumi e non hanno un generico mandato “a conoscere” un individuo per scoprire se ha commesso un reato, bensì solo ad accertare la commissione di un fatto di reato già avvenuto.

Allo stesso modo, non è corretto consentire la cd. “tribunalizzazione” della politica per trasferire verso le corti giudiziarie temi politici e sociali di grande rilievo per fare da contrappeso alle ritenute inefficienze del potere legislativo o di quello esecutivo, perché la politica deve riappropriarsi della sua funzione tipica (scrivere le leggi), perché l'interpretazione della legge non può spingersi oltre i margini della norma scritta e perché questo è il ruolo tipico della Consulta, che di recente ha finanche preferito far prevalere la funzione compulsiva rispetto a quella additiva, mettendo in mora il Parlamento ancor prima di colmare d'imperio il vuoto normativo.

 

Le fake sulla legge “bavaglio”

 

I recenti interventi in tema di divieto di pubblicazione dell'ordinanza cautelare, di intercettazioni e di prescrizione, come anche quelli relativi alla separazione delle carriere e alla modifica dell'abuso d'ufficio, lungi dall'essere attacchi alla magistratura né tanto meno tentativi di un complotto antidemocratico, rappresentano – peraltro sin troppo timidamente – la necessità sia di ripristinare l'accusatorietà del modello processuale (sin troppe volte mortificata da riforme cervellotiche e da giurisprudenze altalenanti, all'insegna di una presunta primazia dell'efficienza anche a scapito dei diritti fondamentali dell'individuo) sia di modernizzare un codice penale ancora legato a un “pentagramma” inquisitorio (visto che è ancora quello firmato dal Guardasigilli del 1930 e che vuole lo Stato preordinato rispetto all'individuo).

Anche la polemica innescata da alcuni organi di informazione, secondo i quali il divieto di pubblicare l'ordinanza cautelare realizzerebbe una ipotesi di “bavaglio” volto a censurare i mass media, non trova alcun fondamento non solo perché ripropone una regola modificata solo nel 2017, che in precedenza non ha mai impedito alla cronaca giudiziaria di fare il suo dovere di “cane da guardia” del potere giudiziario, ma anche e soprattutto perché la libera pubblicazione di interi stralci o anche brevi passaggi di questi provvedimenti – non fondati su una istruttoria dibattimentale ma solo su investigazioni non verificate – rappresenta una indebita intrusione nella vita di cittadini travolti da una indagine (peraltro, non necessariamente da indagati) e sottoposti ai raggi X.

 

Legge Bavaglio? Non è censura ma carenza di professionalità

 

Non si tratta di censura, ma la carenza di professionalità manifestata in troppe occasioni, sol se si pensi ai trafiletti in ventottesima pagina dedicati alle archiviazioni e alle sentenze di assoluzioni a fronte di prime pagine con “condanne cautelari” e paginate di illazioni e sospetti dati per provati, avrebbe necessitato di una seria autoregolazione da parte della categoria che non c'è mai stata, perché si è ritenuto incredibilmente e indebitamente che la lesione alla reputazione sia solo un danno collaterale.

E allora, ripartiamo dal nostro principio costituzionale che opera sia come regola di trattamento da riservare all'imputato durante il processo sia quale regola di giudizio per la prova e per la decisione. Dall'art. 27 Cost. discendono poche direttive, ma chiare: è preclusa radicalmente la possibilità di sottoporre la persona che non sia stata condannata con sentenza divenuta irrevocabile a qualsivoglia regime punitivo; è vietata ogni assimilazione fra indagato/imputato e colpevole; grava sul pubblico ministero l'onere di provare la responsabilità dell'imputato al fine di ottenere una sentenza di condanna; è escluso, per converso, qualsiasi onere probatorio a carico dell'imputato circa la propria innocenza.

Dalla linearità di siffatto principio dovrà, poi, dipendere la cultura giuridica del Paese, laddove non sia più consentito all'interprete anche solo di pensare che il suicidio di un indagato provochi solo il rammarico di aver perso una fonte di informazioni, restituendo umanità a un sistema basato sulla regola in dubio pro reo secondo cui l'eventuale inadempimento da parte del pubblico ministero impone al giudice di pronunciare una sentenza di assoluzione.

In realtà, l'interprete che applica la legge, i mass media che fanno informazione e il cittadino comune dovrebbero ricordare che il fine ultimo del processo penale non è la ricerca della verità perché questa è già presunta dalla Costituzione (la “non colpevolezza”), bensì la verifica dell'ipotesi accusatoria e della capacità dimostrativa di chi detiene la pretesa punitiva dello Stato.

 

(da Il Riformista - 30 Dicembre 2023)

 

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