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Renzi, Calenda e il partito unitario che a un certo punto verrà

di Mario Lavia

Una federazione è meglio di niente, certo, ma il partito unitario Azione-Italia viva dovrà aspettare un altro annetto pronto per lanciarsi alla sfida delle Europee 2024 che è il vero traguardo strategico.

Così l’Assemblea nazionale di Italia viva ha dato mandato a Matteo Renzi di avviare la federazione con Azione di Carlo Calenda (che aveva tenuto la propria riunione nazionale il 19 novembre a Napoli), il percorso dunque è avviato ferme restando le due soggettività politiche anche se i gruppi parlamentari sono già unificati e i dirigenti lavorano di concerto, a partire (pochi ci scommettevano) da Renzi e Calenda. Il quale plaude al «cammino comune» all’insegna di «concretezza e serietà contro il qualunquismo e il populismo di destra e di sinistra».

Nessuno dubita sulla irreversibilità del processo e proprio per questo forse sarebbe stata una novità più forte fondere da subito le due formazioni, ma si guarda non al domani ma al dopodomani – come diceva Aldo Moro – cioè a quelle Europee (con la proporzionale) dove Renew Italia, o come si chiamerà il nuovo partito macroniano, punta nientemeno che al primo posto, considerata la fragilità della sinistra e le divisioni nella destra europee, per cui è la famiglia guidata dal presidente francese quella a essere più in salute: e da noi è la futura formazione Calenda-Renzi a sperare di trarne un dividendo.

In un quadro internazionale segnato da sconvolgenti mutamenti di potere, starà alla famiglia liberaldemocratica rilanciare una nuova centralità europea ed è questo dunque il quadro generale disegnato da Renzi all’assemblea milanese nella quale il leader ha detto chiaramente di voler restare in campo e di avere l’intenzione di coltivare la sua pianta irrobustendone l’iniziativa politica attorno all’acronimo «Scelta» che sta per sanità, cultura, Europa, lavoro, territorio e ambiente.

I soliti capitoli, si dirà, ma è pur vero che le questioni sono quelle, con un’enfasi particolare sulla sanità, con la ripresa di una vecchia idea renziana tornata alla ribalta in queste settimane: prendere i trentasette miliardi del Mes, perché «senza Mes non c’è uguaglianza» – i poveri non possono ricorrere al privato ma devono beccarsi mesi di attesa per un esame – e non regge l’obiezione che si tratta di soldi da restituire perché comunque «le condizionalità del Mes sono inferiori a quelle del Pnrr», ha detto Renzi rivolto alla premier, chiedendole di ascoltare questa richiesta.

Ma tornando alle prospettive del Terzo Polo, o come si chiamerà il nuovo partito, c’è da dire che la concorrenza polemica con il Pd non si attenua, anzi, e non ce n’è solo per il solito Enrico Letta, ormai punching ball per chiunque passi per strada, ma anche per uno come Matteo Ricci che di Renzi ha detto che «disturba», lui che «pochi anni fa si spenzolava in cori adulativi sulla mia persona» e che proponeva di mettere Renzi nel simbolo elettorale.

Renzi ne ha avuta una anche per Elly Schlein, che ieri ha ufficializzato la sua candidatura di sinistra alla guida del Pd, che «noi abbiamo fatto eleggere al Parlamento europeo», lei da Roma ribatte che è stata eletta perché ha preso le preferenze: ma sono vere entrambe le cose.

Schlein è scesa in campo, com’era previsto, prenderà la tessera del Pd per diventarne la segretaria spostandone vistosamente l’asse politico verso sinistra, agli antipodi non solo della stagione renziana, ma anche di quella fondativa del partito che credeva nel valore del mercato, della concorrenza, del garantismo e via dicendo e in questo porta un elemento di chiarezza, la sinistra in campo contro il riformismo di Stefano Bonaccini (lo scontro sarà tra questi due), una sinistra zavorrata da certi appoggi come quello di Dario Franceschini e di diversi dell’entourage di Letta.

Ma è una partita che non riguarda certo Renzi, che semmai potrebbe persino trarre vantaggio da una vittoria della giovane candidata così contrassegnata a sinistra; mentre il Pd oggi sta per «Partito Decoubertiniano, l’importante è partecipare» e non vincere.

E qui cade a fagiolo la vicenda delle regionali lombarde nella quale «se Majorino facesse il vice della Moratti la prospettiva di vincere sarebbe apertissima», una proposta che Renzi butta là sapendo che ormai è tardi, ma è un modo per mettere agli atti l’errore del Pd nel respingere l’appoggio a Letizia Moratti, «sul fatto che sia di destra ci eravamo arrivati da soli, ma lei con la destra ha rotto proprio sulla sanità».

Per il resto, botte da orbi a «Giuseppe Condono Conte», così chiamato come i bluesman che mettono un sostantivo tra nome e cognome («Noi dobbiamo essere esattamente il contrario di lui che dice tutto e il contrario di tutto, cioè niente») e conferma dell’opposizione al governo Meloni, il che non toglie che «Carlo» abbia fatto bene a provare a chiedere miglioramenti alla prima bozza della legge di Bilancio.

Non ha ripetuto, Renzi, che Giorgia nel 2024 rischia. Ma la data che la premier e tutta la politica italiana devono segnare in rosso è quella, l’anno delle elezioni europee con Renew in campo, una novità politica che si è messa lentamente in moto.

(da www.linchiesta.it - 5 dicembre 2022)

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