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Dov'è la vittoria? - L'algido risveglio della destra che non esulta perché sa di dover governare

 

di Mario Lavia

 

Dicono che domenica sera Giorgia Meloni abbia chiesto ai suoi di non organizzare festeggiamenti di piazza. Può darsi, ma la verità è che a parte i dirigenti di Fratelli d'Italia non c'era nessuno pronto a festeggiare alcunché.

 

Raramente si è vista una vittoria più fredda di questa: nemmeno qualche colpo di clacson per le strade, una bandiera tricolore, nulla. E neppure la mattina dopo c'era in giro il minimo segno di un fatto storico come in fondo è la prima vittoria elettorale dell'estrema destra.

L'Italia del 26 settembre aveva la medesima faccia tra l'arrabbiato e l'insonnolito del 24, nulla di nuovo.

 

Una vittoria elettorale, non un fatto popolare. Succedeva così dopo certe vittorie della Dc che però erano scontate, e poi i democristiani erano sobri: il popolo ce l'avevano ma non era il caso di scaldarlo, bastava prenderne i voti ogni cinque anni. I comunisti invece quando andavano bene rovesciavano nelle piazze il loro entusiasmo tardo-rivoluzionario, il 15 giugno 1975, alle Regionali, i tassisti facevano un baccano d'inferno, non erano i tassisti di oggi, c'erano le bandiere rosse che avvolgevano le macchine e i camerieri dei ristoranti che uscivano sui marciapiedi a salutarle col pugno chiuso.

Era popolo, e in festa.

 

Anche la storica vittoria di Silvio Berlusconi nel '94 fu il punto di partenza di un clima a suo modo di casino, caviale e champagne – il famoso «facciamo un po' come cazzo ci pare» di Corrado Guzzanti – ma anche di televisioni accese su Canale 5, e giù risate, anche quello era clima popolare, fino al tracimare del trash ma la politica era comunque ancora anche un fatto fisico, rumore, sudore, cravattone, festone, ragazzone.

 

L'Ulivo poi fu caratterizzato dal volume forte – «Alzati che si sta alzando la canzone popolare» – allegria un po' bolognese un po' romanesca come i due leader, era la prima volta della sinistra al governo, degli ex comunisti addirittura, e fu un paradossale gioco della storia che la festa della sinistra fu in una piazza intitolata ai Santi Apostoli e l'officiante fosse un professore ex democristiano con un'aria vagamente pretesca: ma andava bene tutto.

 

Ci furono al Nord i successi tra l'epico e l'effimero di Umberto Bossi prima e di Matteo Salvini poi celebrati sul pratone o nei paeselli, vino e polenta e carne d'asino, ma insomma era popolo anche quello, rauco e chiassoso.

 

In questi anni del nuovo millennio poi abbiamo visto i tremendi tour di Beppe Grillo, tutte feste con qualcosino dentro di lugubre, di angoscioso come solo le parolacce sanno essere, uno sfogo antico e insieme multimediale, mandare a quel paese l'universo mondo è una cosa che il popolo fa da sempre e non nei momenti più alti della Storia, ma la gente c'era, eccome se c'era.

 

E invece stavolta niente. Amici, stiamo a casa sennò ci scappa qualche salutino romano? Può essere. Ma invece se questo popolo della destra non ci fosse?

O meglio, se ci fosse ma non sentisse il vento della Storia, giusto una bella vittoria nelle urne, complici anche e soprattutto le debolezze degli altri?

Che c'è da andare in piazza col 26 per cento?

 

È una destra che vince ma non festeggia, va al governo come se andasse al patibolo, prigioniera di un passato in fondo facile – basta dire sempre di no e fare le vittime – timorosa di rompere di botto con l'età dell'innocenza dei folletti, gnomi e Tolkien e ora chiamata a scrivere decreti, a emanare ordinanze. Una second life triste. Con la paura che il popolo non dia la spinta necessaria a scalare questo Calvario perché loro sanno che in giro c'è un'indifferenza che non è solo qualunquismo, ma una specie di consapevolezza del fatto che la politica non è più la chiave dell'avvenire e neppure del quotidiano, è un'ambizione per pochi e non una strada per tutti.

 

Se la sinistra sta vistosamente smarrendo il suo nesso con il popolo, nemmeno la destra pur vincente scalda i cuori, neppure una giovane leader restituisce calore al freddo della politica. E se alla fine l'analisi, rozza ma non falsa, si racchiudesse nell'affermazione che, semplicemente, molta gente ha votato per Giorgia così, perché ora proviamo pure questa?

 

Dov'è allora la vittoria, se il popolo diventa gente – ordinary people – dov'è il cuore pulsante di questo burocratico 25 settembre, dov'è la svolta storica?

Senza sminuire l'affermazione elettorale della destra, forse la vera svolta sta qui: nel gelido sporgersi della politica nelle nostre vite giusto il giorno delle elezioni, perché tanto domani sarà come ieri.

 

 

(da www.linchiesta.it – 28 settembre 2022)

 

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