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Da dove ripartire: un bagno di realtà in tre punti

diFerruccio de Bortoli

Una comunità che invecchia ma non vuol sentirselo dire. Una partecipazione al lavoro e un grado di istruzione tra i più bassi d’Europa. Un’evasione fiscale ciclopica e uno squilibrio insostenibile tra chi produce e chi beneficia di risorse che, in campagna elettorale, sono sembrate illimitate.
Qualunque sia il nostro orientamento politico, il giorno del voto è un giorno di festa della democrazia. Se ci siamo abituati o lo viviamo come una sorta di adempimento amministrativo, la colpa è solo nostra. E della nostra scarsa e purtroppo labile memoria storica.

Chi fu privato, troppo a lungo, della libertà di esprimere la propria opinione, nel momento in cui nacque la Repubblica, fondata sui valori della Resistenza, trovò nel recarsi alle urne il senso più profondo di una cittadinanza vera e consapevole. E lo fece anche pensando a chi non c’era più e non poté mai farlo.

Non è un caso che il diritto di voto sia stato pensato dai costituenti anche come un dovere civico, il cui mancato rispetto sarebbe stato persino punito. Un sentimento via via appannatosi, negli anni del nostro benessere (economico e democratico), fino a non essere sentito più come tale da larghi strati della popolazione. Dunque, qualunque sia il nostro orientamento politico, dobbiamo tutti augurarci che la partecipazione sia la più alta possibile. Una grande affluenza è segno di maturità, di comprensione della complessità dei problemi del Paese e della delicatezza del momento storico che stiamo vivendo. Sarà poi del tutto inutile discutere, da stasera in poi, sul voto di chi non vota. Non è una scelta. È la rinuncia ad esercitare un diritto-dovere. Un vuoto.

E ancora: qualunque sia la preferenza espressa — anche quella di non esprimersi — dovremmo essere tutti d’accordo nel considerare il governo che verrà nella sua piena legittimità e rispettabilità democratica.
«La sovranità appartiene al popolo — recita il fin troppo citato, ma solo a metà, articolo uno della nostra Carta — che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Chi vince ha il diritto-dovere di gestire il potere che gli viene conferito, ma all’interno di quelle forme e di quei limiti. La coscienza di quello che non si può fare — insieme alla responsabilità per l’urgenza di decisioni che riguardano l’intera comunità (e non solo le proprie coorti elettorali) — è la regola base di ogni buon governo. Le istituzioni non si occupano — è accaduto troppo spesso — bensì si rappresentano al meglio. Con «disciplina e onore» — com’è scritto sempre nella Costituzione. E con una adeguata preparazione, verrebbe da aggiungere.

Il consenso non fa curriculum, né autorizza a negare l’esistenza di un principio di realtà. In campagna elettorale si eccede, un po’ da tutte le parti, nelle promesse. È normale, fisiologico (ma in modica misura). L’eventuale coalizione di governo dovrà fare i conti con la realtà (amara) dei numeri veri del nostro Paese. Una comunità che invecchia ma non vuol sentirselo dire. Una partecipazione al lavoro e un grado di istruzione tra i più bassi d’Europa. Un’evasione fiscale ciclopica e uno squilibrio, insostenibile nel tempo, tra chi produce (e paga le tasse) e chi beneficia di risorse che, in campagna elettorale, sono sembrate illimitate.

A parte il debito che appare un po’ a tutti leggero, etereo. Prima si farà questo bagno di realtà (e di umiltà) sarà meglio per tutti.

Nelle forme e nei limiti di cui parla la Carta, vi è anche il quadro delle nostre alleanze internazionali, l’appartenenza all’Unione europea di cui siamo orgogliosamente fondatori, le regole che anche noi abbiamo contribuito a scrivere e che non ci sono state imposte da nessuno. Un Paese serio non ridiscute, ad ogni turno elettorale, gli impegni assunti dallo Stato come se non vi fosse alcuna continuità tra un governo e l’altro, pur di natura politica radicalmente diversa. Come se si ricominciasse sempre daccapo, da una sorta di terreno verde, vergine. E una classe politica responsabile, che si candida a gestire la cosa pubblica, non contrabbanda poteri che non possiede. Sa che la rottura di legami profondi, specialmente nell’Unione europea (il cui diritto è stato legittimamente recepito nel nostro) non è priva di costi. Serietà e credibilità sono le uniche armi con le quali gli interessi nazionali possono essere fatti valere concretamente sui tavoli internazionali. Il resto è propaganda. Un agitarsi inconsulto che in campagna elettorale genera curiosità, solleva applausi, ma poi, quando si è al governo, è controproducente e dannoso.

(dal Corriere della Sera - 25 settembre 2022)

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