logo Fucinaidee

Le barriere tra i partiti e le imprese

 

di Dario Di Vico

 

In Italia è tradizione che la politica privilegi i consumi sugli investimenti, la domanda sull'offerta, il debito sulla crescita. Guardare al lungo termine è stato sempre considerato una bestemmia

 

La crisi del gas oltre a mettere in ginocchio migliaia di aziende si è anche «mangiato» il dibattito elettorale sul futuro industriale del Paese. Buona parte dei leader, in qualche caso anche per incompetenza, ha preferito duellare sul tema dello scostamento di bilancio definendolo «indispensabile» per allargare gli aiuti alle Pmi e con questa mossa ha pensato di aver fatto i compiti e di poter chiudere i libri. È difficile dire se quella in corso è la peggiore campagna elettorale di sempre, come sostengono in molti, ma sicuramente una delle più contraddittorie: Adolfo Urso davanti all'ampia platea degli industriali di Vicenza ha scandito l'impegno del prossimo governo ad abolire il reddito di cittadinanza ma dentro la coalizione di centrodestra e tra i candidati meridionali il novero dei malpancisti cresce con l'avvicinarsi del giorno delle urne. E qualcosa del genere vale per il Pd che al Sud sventola come una bandiera la proposta delle 300 mila assunzioni nella pubblica amministrazione ma si è guardato bene dal raccontare a Vicenza, nell'intervento del segretario Enrico Letta, l'idea che ha maturato. È la stagione dell'ambiguità, dei programmi à la carte, degli impegni di governo diversi al Nord dal Sud, delle intemerate per lo scostamento di bilancio abbinate a un intransigente «No» al rigassificatore di Piombino.

 

È l'epoca della demagogia coordinata e continuativa che porta la classe politica a gridare alla colonizzazione se un'aziendina del made in Italy viene acquisita da capitali stranieri e a restare in assoluto silenzio quando, come nei giorni scorsi, il gruppo Ariston investe un miliardo per comprare un concorrente tedesco e fa della Germania addirittura il suo primo mercato di sbocco.

 

La verità è che tra politica e industria il dialogo continua ad essere a strappi. Siamo ancora il secondo Paese manifatturiero d'Europa, siamo rispettati in Francia e Germania per l'insostituibilità del contributo delle nostre imprese alle grandi catene del valore, abbiamo frantumato di volta in volta i precedenti record delle esportazioni (che oggi da soli valgono un terzo del prodotto e dei redditi del Paese) ma l'industria resta per la politica italiana un incidente di percorso. Non serve ad accumulare consenso e quindi può essere derubricata. Trasformazione digitale, transizione all'elettrico, reperimento e formazione del capitale umano, equa contrattazione salariale e welfare aziendale non sono considerati «temi» (parola-chiave dei sondaggisti) sui quali documentarsi e spendersi. Meglio una comparsata su TikTok. Del resto è tradizione in Italia che la politica privilegi i consumi sugli investimenti, la domanda sull'offerta, il debito sulla crescita. Guardare al lungo termine è stato sempre considerato una bestemmia.

 

Eppure al di là anche della drammatica partita del prezzo del gas — descritta giustamente come uno tsunami — l'industria meriterebbe ancor più attenzione che in passato. L'invasione russa dell'Ucraina non ha solo messo in crisi l'idea irenica della globalizzazione che allontana i conflitti armati e ci rende tutti clienti felici di McDonald's, ma ci ha anche avvisato che nel mondo di domani gli spazi per la nostra manifattura potrebbero restringersi. Le grandi sfide dell'Occidente come i programmi di riarmo, il ritorno delle produzioni, gli investimenti nelle materie prime e la riconfigurazione delle reti energetiche sono destinate a riscrivere le mappe della globalizzazione e a produrre effetti di riposizionamento dei Paesi industriali. Che ruolo potremo giocare? Pensiamo di poter continuare a pesare nel mondo solo grazie al soft power l egato al «bello e benfatto»? È evidente che no e che il futuro manifatturiero dell'Italia è ancora una volta legato alla quantità degli investimenti che sapremo mettere in campo, a un ulteriore incremento del valore aggiunto e al vantaggio competitivo che sapremo ricreare nella nostra meccanica di punta ma il tutto dovrà avvenire in pieno raccordo con l'Europa. E in particolare con i nostri partner privilegiati, Francia e Germania. E allora che senso ha alimentare un conflitto anacronistico con Parigi o pensare che quella ungherese possa essere un modello di società per noi e, infine, dimenticare che la Polonia in tutti questi anni con le sue zone speciali ci ha fatto concorrenza sleale dentro la Ue? Occorre realismo e insieme una visione di lungo termine. In ballo non ci sono solo i 360 miliardi di Pil frutto dell'industria ma lo stesso ranking dell'Italia nel mondo.

 

(dal Corriere della Sera - 19 settembre 2022)

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina