Di Ernesto Galli della Loggia
Non si governa la Gran Bretagna se chi la governa non si riconosce nella monarchia, né la Francia se si rifiuta l’eredità della Rivoluzione. Allo stesso
modo non si può guidare la Repubblica italiana se non si accetta il fatto che essa ha le sue radici nell’antifascismo. Un fatto stabilito innanzi tutto
dalla storia: e chi non intende accettare i verdetti della storia è difficile che possa avere un grande avvenire in politica. Ma ciò detto — dunque con
relativo invito alla destra perché si disfi senza se e senza ma di ogni rimasuglio nostalgico (perché alla fine di questo si tratta a me pare: di rimasugli)
— ciò detto, esiste un altro ordine di considerazioni egualmente importanti che riguarda il passato italiano. Si tratta del fatto che in nessun altro Paese
dell’Europa occidentale come da noi, tra fascismo prima e comunismo poi, si è avuta una così grande diffusione di culture politiche ostili alla democrazia
liberale. Alle spalle dell’Italia che oggi va a votare ci sono insomma due lunghi passati antidemocratici, milioni di italiani che li hanno condivisi,
tradizioni tenaci che da lì sono nate.
Di fronte a questi passati è possibile, per chi ne ha voglia, dividere gli antidemocratici buoni da quelli cattivi e naturalmente stare dalla parte dei
buoni e della loro storia, qualunque cosa ciò possa oggi significare. Per 80 anni è stato abbastanza inevitabile che fosse così. Ma oggi? Oggi è forse
possibile un atteggiamento diverso, più corrispondente alla realtà delle cose. Vale a dire considerare questi due passati apparentemente opposti come un
tutto unico peculiarissimo della vicenda nazionale italiana, che va compreso per ciò che esso è realmente stato. Quel tutto unico — la presenza così centrale
di fascismo e comunismo nella nostra storia — non è stato un caso. Esso ha significato un momento decisivo del lungo travaglio dell’Italia del popolo,
delle enormi masse povere e sfruttate, perlopiù racchiuse nel buio della più cupa ignoranza, quali esse erano agli albori dello Stato unitario, per giungere
alla moderna cittadinanza. Ha insieme rappresentato anche lo sbocco di un disagio morale e politico che tale condizione non aveva mancato di produrre fin
dall’inizio in alcuni settori dell’élite del Paese.
Ma la miseria e l’analfabetismo si accordano male con la democrazia liberale, con le sue procedure, con la libertà di stampa e le elezioni. Suggeriscono
altre strade per raggiungere l’emancipazione. Per una parte importante la nostra storia è stata per l’appunto la storia di queste «altre strade», che si
sono chiamate fascismo e comunismo. Nell’un caso e nell’altro - nel ’19 e nel ’43, non a caso in coincidenza con due guerre sconvolgenti - proprio tali
strade furono imboccate da minoranze guidate da giovani intellettuali perlopiù di estrazione piccolo borghese i quali, sprezzanti dell’antico ordine liberale
e confidenti nell’uso della forza, erano intenzionati ad aprire la via a un’Italia nuova: declinata secondo gli uni nella prospettiva della potenza della
«nazione proletaria», secondo gli altri nella prospettiva del rovesciamento dell’ordine capitalistico-borghese. Usando entrambi la violenza, certo: dal
momento che la violenza era nell’aria dei tempi e era la via più radicale e per dei giovani anche quella più carica di fascino. Una violenza che dai fascisti
fu impiegata a piene mani e con ferocia, conseguendo il successo che si sa. Dagli altri invece, dai comunisti, fu solo sporadicamente praticata nel ’45,
per poi essere esclusivamente teorizzata ed evocata, ma a lungo ammirata e politicamente condivisa, nelle innumerevoli forme di brutalità e di crudeltà
efferata che fin dall’inizio avevano caratterizzato la rivoluzione bolscevica e la Russia sovietica dalla quale il loro partito traeva origine, prestigio
e denaro.
Chi guarda con lo sguardo lungo e profondo della storia sa che l’Italia moderna è nata per una parte significativa così, da questo succedersi e sovrapporsi
di culture antidemocratiche. Sa che essa ha preso le mosse dal fascismo grazie a non pochi istituti pubblici e alcune decisive esperienze industriali da
esso varati, grazie ai primi interventi del suo Stato a favore delle masse, alle sue aperture al nuovo nel campo delle arti e delle idee. Così come sa
quanto è stata importante nell’Italia repubblicana l’azione e la pressione del partito comunista e delle sue organizzazioni, in specie quelle sindacali
– e forse ancor più l’azione spontanea di tanti suoi militanti- per arginare ingiustizie, garantire diritti, per aprire spazi di libertà e per lo svecchiamento
del Paese. Ma non solo: anche per suscitare e organizzare, ad esempio, tante vocazioni imprenditoriali di piccola e media portata, talora di grande successo,
nelle regioni dove più forte era la presenza dei «rossi».
Il fascismo e il comunismo sono stati entrambi qualcosa di profondamente italiano e nazionale, profondamente nostro e familiare (e forse proprio perciò
destinati a suscitare quell’odio che solo nelle famiglie può durare in eterno). Sono stati entrambi l’espressione di un tratto di fondo della storia italiana
novecentesca che è stato il populismo (un aspetto assai diverso del quale è stato pure il popolarismo cattolico). Un populismo che non c’entra nulla con
quello di cui si parla oggi perché esso ha voluto dire la centralità assegnata all’elemento popolare e al suo riscatto storico debitamente trasfigurato
nell’ideologia della Nazione in un caso e della Rivoluzione nell’altro.
L’Italia deve ancora compiere un’opera di autocomprensione di sé in relazione a questo suo passato così complesso che ha visto la contrapposizione feroce
tra due estremi, in qualche modo provenienti tuttavia da una medesima radice e con più di un aspetto in comune. Oggi che tutto è finito, tenere in vita
e alimentare tra di essi ( o meglio tra i loro presunti e pallidissimi epigoni) le ostilità di un tempo serve solo a rinviare l’inevitabile momento di
una tale presa di coscienza. Serve soprattutto a distorcere e inquinare perennemente il confronto politico all’interno del nostro Paese, rinchiudendo tale
confronto in uno schema sempre eguale, in un recinto senza vie d’uscita che condanna l’Italia a un virtuale immobilismo maledettamente simile alla paralisi.
Farsi consapevoli del passato italiano non significa un banale embrassons nous, non significa l’oblio. I torti e le ragioni stanno ormai scritti nella
storia, che registra tutto e aiuta a non dimenticare. Ma la storia non è una prigione, non può essere la prigione del nostro futuro.
(da www.corriere.it - 18 agosto 2022)