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La coerenza di Draghi e la guerra dei sei giorni per salvare il governo

di Mario Lavia

Tutto torna, alla fine: il bipopulismo si salda plasticamente, con la destra grillina che è vicina a consegnare l’Italia alla destra sovranista facendo di tutto per ammazzare il miglior governo riformista che poteva essere costruito sulla base dei rapporti parlamentari.

 

L’oscuro arcobaleno Giuseppe Conte-Matteo Salvini (e Giorgia Meloni) si è ridisegnato ieri nel cielo della politica italiana sorprendendo chi confidava sul fatto che la botta del non voto del Movimento 5 stelle alla fiducia sul decreto Aiuti potesse essere riassorbita, e la previsione non era poi tanto campata in aria se è vero com’è vero che ieri su Mario Draghi ci sono state pressioni fortissime perché resistesse al suo posto: dal Quirinale, dal Partito democratico, da forze sociali, dall’Europa. Ma non c’è stato niente da fare.

 

Per ora, almeno. Sergio Mattarella – in una dialettica nella quale si è indovinato un certo dissapore con il presidente del Consiglio – ha respinto le dimissioni rinviando il governo alle Camere, una ciambella di salvataggio, un tempo supplementare, guadagnando sei giorni prima del dibattito parlamentare di mercoledì prossimo.

 

È la famosa parlamentarizzazione della crisi: «Ognuno dica la sua in Parlamento assumendosene la responsabilità», ha detto a sera uno scurissimo Enrico Letta. La rottura provocata dal M5S è il segno che la storia si sta vendicando della – chiamiamola così – ingenuità del Pd ormai preda del terrore di rotolare verso elezioni come minimo in salita, e quindi impegnatissimo a sfruttare la guerra dei sei giorni per vedere se è possibile ricostruire la fiducia al governo che, va ricordato, la maggioranza ce l’ha anche senza i contiani.

 

È lo stretto spazio su cui lavora anche Matteo Renzi che a differenza di Letta parla apertamente di Draghi bis, cioè appunto un governo senza i contiani.

 

L’interrogativo, gigantesco, riguarda il presidente del Consiglio. Draghi non è Mariano Rumor o Giovanni Leone o Giulio Andreotti, non è il politico di professione che sta lì a farsi rosolare a fuoco lento contando che il tempo sfianchi chi rema contro. Piuttosto il paragone corre a Romano Prodi, cotto a puntino da Fausto Bertinotti – comunque mille volte più lineare dell’ondivago avvocaticchio – che nel lontano 1999 non accettò compromessi avviando però un corso delle cose che poi scivolò verso l’inevitabile vittoria elettorale della destra.

La grande differenza con allora è che Bertinotti voleva spostare l’asse politico a sinistra sui contenuti mentre Giuseppi fa finta di essere socialdemocratico sventolando la bandiera sociale al solo fine di raggranellare qualche consenso perduto ma vuoi per dabbenaggine vuoi per disegno consapevole egli sta spianando la strada alla stra-annunciata vittoria di Giorgia Meloni che però è tutta da dimostrare – ma questo è un altro discorso.

Con un cinismo raro in un Paese che pure ne ha viste tante, l’avvocato populista manda a monte tutti i piani di un Enrico Letta colpevole di non aver visto per tempo la tragedia di un uomo ridicolo come Conte, un uomo che per salvaguardare il proprio potere personale non ha esitato a votare tre governi di segno diverso, presiedendone personalmente due.

 

Cosa farà, l’ex presidente della Banca centrale europea, l’uomo chiamato da Sergio Mattarella a salvare l’Italia dalla bancarotta e dalla pandemia e trovatosi pure a co-guidare l’Europa nella temperie ucraina?
Le parole con cui ha salutato i ministri restano scolpite in tutta la loro durezza e sembrerebbero non lasciare presagire ripensamenti.

 

Il Consiglio dei ministri è finito pure male, con un diverbio tostissimo tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani: il ministro dem alla fine del discorso di Draghi gli aveva chiesto un ripensamento, al che il ministro tecnico gli ha intimato: «Stai nel tuo… Tu hai lavorato per Conte». Orlando ci ha spiegato che il dissapore (eufemismo) deriva dall’irritazione del ministro per la transizione ecologica per il lungo articolo scritto da Orlando insieme a Enzo Amendola proprio sulla materia di Cingolani. Sembra siano dovuti intervenire gli altri ministri. Un episodio che rivela un contrasto politico serio.

A questo punto la prospettiva di un voto in autunno non è più teorica. C’è persino Massimo D’Alema (ma non ha nient’altro da fare?) che manovra per un governo Amato per la legge di Bilancio.

Eppure per lo statista che solo poche settimane fa ha spiegato che il nemico è «il populismo» che va sconfitto con le armi del riformismo non è detto che la strada dell’abbandono sia inevitabile. Mercoledì terrà un discorso forte. In quanto a Giuseppe Conte, ha ancora la possibilità di non diventare il nuovo Luigi Facta, l’uomo che cento anni fa consegnò l’Italia alla reazione.

(da www.linchiesta.it - 15 luglio 2022)

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