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Dopo Bucha - In Ucraina, la situazione non potrebbe essere meno complessa di così

di Francesco Cundari

Non è affatto vero, nemmeno in guerra, che le cose siano sempre straordinariamente complesse. Anzi, in certi casi, è vero l’esatto contrario: spesso l’orrore è tale proprio per la sua trasparente e spudorata chiarezza.
In quello che sta avvenendo in Ucraina non c’è nulla di indecifrabile. Potremmo dire anzi che è il conflitto meno indecifrabile della storia, almeno dai tempi della Seconda guerra mondiale. Di sicuro il più prevedibile e il più previsto, anche con largo anticipo, salvo da coloro che oggi ci spiegano che le cose, ovviamente, sono più complesse (ma questo è un classico dei talk show italiani, in cui l’ospite fisso spiega sempre, dopo, quello che non aveva capito prima).

Abbiamo visto colonne di blindati lunghe chilometri partire dalla Russia e attraversare il confine con l’Ucraina per invadere il paese, mettere sotto assedio le città con metodi medioevali, bombardare, giustiziare e deportare migliaia di civili. E abbiamo visto quello che hanno fatto a Bucha. Cosa c’è di così difficile da capire?

L’Anpi dice di condannare «fermamente» il massacro di Bucha (forse nel senso che, dopo averlo condannato, dovremmo restare fermi), «in attesa di una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili». E aggiunge pure che «questa terribile vicenda conferma l’urgenza di porre fine all’orrore della guerra e al furore bellicistico che cresce ogni giorno di più».
A leggere il comunicato, sembra quasi che a Bucha gli ucraini si siano sparati da soli, vittime del «furore bellicistico». Quasi che si trattasse di effetti collaterali, gente finita per caso sulla linea di tiro. Più spregevole di tutto è però l’insistenza sulla necessità di una commissione guidata «da paesi neutrali» per appurare «cosa davvero è accaduto».

Se c’è una cosa al mondo che possiamo dire serenamente di sapere con certezza è proprio quello che è avvenuto, davvero, a Bucha. Perché documentato da telecamere, fotografie e immagini satellitari; perché testimoniato da decine di inviati indipendenti delle più diverse testate; perché raccontato nei dettagli più atroci da centinaia di persone che l’hanno visto con i propri occhi.

La ragione per cui ne parliamo solo ora, però, è che solo ora le truppe russe si sono ritirate.
A mano a mano che il ripiegamento prosegue, e nuove città e sobborghi vengono liberati, arrivano notizie di atrocità analoghe e se possibile persino peggiori, da Irpin a Borodyanka. Purtroppo, è ragionevole presumere che col passare del tempo resoconti del genere si moltiplicheranno.

Quello che oggi sappiamo con certezza è che in diversi casi dove è arrivato l’esercito russo - cioè dove la resistenza e le armi occidentali non sono stati sufficienti a fermarli - i soldati hanno stuprato le madri davanti ai figli, hanno sparato a vecchi in bicicletta, hanno deliberatamente assassinato i civili che tentavano di scappare sparando sulle loro automobili o semplicemente passandoci sopra con i carri armati, hanno torturato uomini, donne e persino bambini.

Dall’inizio della guerra tanti ucraini, dal capo del governo all’ultimo dei profughi, in cento dichiarazioni e interviste, ci hanno chiesto armi per potersi difendere, cioè per impedire ai russi di fare tutto questo.
Da allora, il dilemma che abbiamo davanti non potrebbe essere più semplice, più lineare, più binario: gli abitanti di quelle città ci chiedono armi per impedire che le loro mogli e i loro mariti, i loro figli e i loro genitori facciano la stessa fine degli abitanti di Bucha, ed è una domanda cui si può rispondere solo in due modi, con un sì o con un no.

Dire, come hanno fatto alcuni raffinati filosofi, politologi e geopolitologi, che dovremmo rispondere di no, ma per il loro bene, per non prolungare inutilmente le loro sofferenze, è persino più ridicolo che disumano (ed è molto disumano).

Dire, come hanno fatto ancora ieri alcuni dei suddetti filosofi, politologi e geopolitologi, che il massacro di Bucha dimostra che mandare le armi è inutile, perché il massacro c’è stato lo stesso e le nostre armi non lo hanno impedito, e magari ripetere lo stesso concetto per le sanzioni, è un sofisma tanto risibile intellettualmente quanto riprovevole moralmente. È grazie alla resistenza degli ucraini, e alle armi occidentali, che i russi sono stati cacciati da Bucha e non sono riusciti a entrare a Kiev, dove verosimilmente non si sarebbero comportati in modo troppo diverso.

Chi dice che gli ucraini non devono resistere e che noi non dovremmo aiutarli, anche con le armi, sta dicendo a quelle persone, a Kiev, che avrebbero dovuto lasciare entrare i loro massacratori, e lasciare che facessero anche a loro, alle loro mogli e ai loro mariti, ai loro figli e ai loro genitori, quello che hanno fatto solo qualche chilometro più in là.

Tirare in ballo la Nato o gli americani per arrivare alla stessa conclusione significa cancellare gli ucraini dal quadro, trattarli come bambini, o come pupazzi, che è esattamente, non a caso, quel che fa la propaganda russa.

Dire che il problema non è Putin, non sono le atrocità di Bucha, non è l’invasione russa, ma la guerra – così, in generale, come si trattasse di un fenomeno meteorologico, come fosse una pioggia che a un certo punto arriva, e che ci vuoi fare, piove – significa volere soltanto fare casino.

La verità è che le cose non potrebbero essere meno complesse di così. Qualunque considerazione su quello che dovremmo fare e su quello che non dovremmo fare, su quale sia il limite oltre il quale non possiamo spingerci, militarmente ed economicamente, deve partire dal riconoscimento dell’elementare, binaria, cristallina chiarezza della situazione. Altrimenti è solo un gioco delle tre carte, propaganda di seconda mano, sofismi da quattro rubli.

(da www.linchiesta.it - 6 aprile 2022)

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