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La convenienza della cina a scaricare putin

 

di Adriana Cerretelli

 

E se alla fine, a fermare la guerra di Vladimir Putin in Ucraina, fosse nientemeno che la coppia oggi più improbabile del mondo, Joe Biden e Xi Jinping, i presidenti arcinemici di due mondi contrapposti e in feroce competizione tra loro?

Ma in fondo, come ricorda l’economista russo Sergey Guriev, non fu proprio il presidente Franklin Delano Roosevelt a decidere nel 1941, rompendo tutti gli schemi, che il sovietico Iosif Stalin dovesse essere parte della soluzione per battere il nazismo?

Scavando del resto nel coacervo delle grandi paure che si fronteggiano in queste settimane, lo scenario appare meno irrealistico di quanto non sembri a prima vista.

Ha paura Putin che ha sbagliato tutti i calcoli: niente blitzkrieg in Ucraina né Occidente imbelle, invece guerra di logoramento, bombe, morti e massacri, una resistenza ucraina irriducibile con il coraggio della disperazione, proteste in casa e sanzioni occidentali, economiche, finanziarie, commerciali, tecnologiche che mordono e isolano il paese in odore di default.

Ha paura lo zar che brandisce l’arma nucleare e chiede, pare, aiuti militari ed economici alla Cina mettendo a nudo, tra l’incredulità generale, la sua debolezza.

Di questi tempi però la spavalderia non abita da nessuna parte: non a Kiev né a Bruxelles, non a Washington e neanche a Pechino.

L’America di Biden teme il gesto inconsulto, il gioco che sfugga di mano e finisca nella terza guerra mondiale, paventa la saldatura della partnership “senza limiti” tra Russia e Cina, l’Occidente avvitato in una sfida mortale.

Nemmeno in Cina dormono sonni tranquilli: difficile mantenere l’equidistanza tra i belligeranti ma ancora di più rinunciare alla neutralità facendo una chiara scelta di campo: Putin sarebbe l’opzione naturale ma solo se vincente, il che non è scontato. Se anche conquistasse l’Ucraina, finirebbe prigioniero di una guerriglia infinita, se in un gesto estremo toccasse il bottone nucleare si autoespellerebbe dal genere umano, lui e il suo Paese. Se perdesse, regalerebbe alla Cina un vassallo umiliato e impoverito invece di un alleato, che potrebbe travolgerla nella propria disgrazia e isolamento.

Quale sarebbe allora per Xi e la sua strategia che guarda lontano il vantaggio dell’abbraccio con l’orso ferito?

Non è un caso se ieri si sono incontrati a Roma Jake Sullivan, il consigliere della Casa Bianca alla sicurezza nazionale, e Yang Jiechi, il diplomatico di più alto rango del partito comunista cinese.

Ufficialmente il tema la guerra in Ucraina, la preoccupazione americana di non indebolire la resistenza di Kiev né di depotenziare le sanzioni a Mosca con le manovre sottobanco cinesi. Di qui la chiara messa in guardia sui rischi delle sanzioni secondarie contro chiunque aggiri l’embargo Usa. Minaccia sgradita a Pechino, ansiosa invece di tregua se non pacificazione nei rapporti commercialicon gli Stati Uniti.

È probabile che l’occasione sia servita anche per sondare gli umori cinesi su scenari post-bellici e comune interesse a una nuova geopolitica della sicurezza e della stabilità globali.

Di tentativi di mediazioni diplomatiche in campo ce ne sono molti: la Francia di Emmanuel Macron, la Germania di Olaf Scholz, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e Israele di Naftali Bennett. Nessuna però sembra avere forza e capacità di instaurare un serio dialogo costruttivo con Putin.

L’unico che potrebbe avere le carte in regola per riuscirci è Xi Jinping, soprattutto se americani e cinesi insieme trovassero l’escamotage per salvare la faccia a Putin evitandogli lo schiaffo della sconfitta conclamata.

Forse convincerlo potrebbe rivelarsi meno arduo del previsto. Da sempre a Pechino come a Mosca ci sono fautori e nemici dell’abbraccio reciproco. La guerra in Ucraina però sta facendo pendere la bilancia cinese verso i secondi. Con una serie di argomentazioni puntuali. Eccole.

Comunque la si guardi, dalla partita ucraina Putin uscirà perdente, l’unica incertezza riguarda quanto perdente. Ma, agli occhi dei cinesi, è ben più grave il danno geopolitico che ha provocato: non solo ha ricompattato l’Occidente dato in irreversibile declino ma gli ha restituito come nel 1991, quando implose l’Urss, unità, leadership, valori e capacità di attrazione quasi dovunque nel mondo. È questo il grande vulnus con cui Xi è costretto oggi a fare i conti.

Il suicidio politico dello zar lo priva di un alleato ed elimina uno dei due antagonisti degli Stati Uniti lasciando la Cina sola a pararne i fulmini commerciali e la strategia di containment. A rischio di isolamento militare nell’Indo-Pacifico, circondata da Usa, Nato, accordi Quad e alleanza AUKUS, e indebolita in Europa dalla ritrovata armonia euro-americana.

Non ci sono allora molte scelte per la pragmatica Cina di Xi. Magari obtorto collo, il disastro strategico targato Putin apre alla sua agognata normalizzazione con gli Stati Uniti. Proprio come nel 1972, esattamente 50 anni fa, un altro disastro, il Vietnam, schiuse le porte della Città Proibita abitata da Mao Zedong.

 

(da il Sole 24 ore - 15 marzo 2022)

 

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