logo Fucinaidee

Gerardo Bianco: "Moro, Fanfani, Mattarella. La mia lunga vita nella Dc"

 

di Federico Bini

 

A 91 anni quasi compiuti, Gerardo Bianco, uno degli ultimi storici esponenti di spicco della Democrazia cristiana e del popolarismo italiano racconta la sua straordinaria vita

 

L'ascesa politica con Sullo e De Mita, la passione per il parlamento, gli incarichi di capogruppo, ministro e segretario del Ppi dopo la fine dell'amata Dc. Il tentativo di includere il Psi nell'area di governo, le nottate in parlamento, l'elezione mancata di Forlani al Quirinale, il ricordo di Moro, Fanfani, Cossiga e Andreotti e l'elelogio del presidente della Repubblica Mattarella.

 

Presidente Bianco è vero che Lei è un intellettuale prestato alla politica?

 

"Io metto in dubbio che sia un intellettuale. Intellettuale per me è un discorso molto profondo. Bisogna veramente essere persone di grande cultura. Ho coltivato gli studi, sono uno che ha moderatamente letto parecchi libri anche quelli del mondo latino ma non mi ritengo un grande intellettuale. Ho fatto politica, questo sì, per tutta la vita, con grande passione, soprattutto la vita parlamentare. Per me il parlamento era il cuore della politica italiana e lì ho vissuto le mie ore migliori e le giornate più avvincenti".

 

Lei una volta ha detto: “Il parlamento è la mia passione”.

 

“Esatto. Io mi sono sentito sempre un rappresentante parlamentare anche se ho avuto ruoli più di carattere partitico o di governo, io mi sono sempre sentito un rappresentante della nazione”.

 

Lei entra in parlamento nel 1968 e vi rimane per oltre quarant'anni. Guardando retrospettivamente come sono cambiate da dentro le istituzioni italiane.

Pensiamo ad esempio al ruolo della presidenza della Repubblica.

 

“La situazione nel corso degli anni si è parecchio modificata. In sostanza quello che ha inciso moltissimo nella evoluzione delle nostre istituzioni a mio avviso è stata una data, una data infausta, che avrebbe stabilizzato il sistema politico italiano, ed è il 1953. Quando la legge cosiddetta 'truffa' non viene praticamente approvata e cominciano le instabilità dei governi. In questo contesto il ruolo del presidente della Repubblica vedrà crescere i suoi poteri, continuando a svolgere il ruolo che comunque la Costituzione gli conferisce di bilanciamento dei poteri, di stabilizzazione che è stato esercitato in maniera sempre più incisiva”.

 

Prima di entrare in parlamento da ragazzo avellinese era dato vicino come anche De Mita al ministro Fiorentino Sullo.

 

“Sullo aveva un carattere difficile, complicato e molte volte mutevole. A Sullo dobbiamo riconoscere di aver fatto crescere una classe dirigente. Sullo è stato un grande politico, aveva una visione straordinaria nella concezione dello sviluppo del paese. Rimane celebre la sua proposta di legge urbanistica, bocciata clamorosamente dalla stampa che era ostile e in qualche maniera anche dall'interno del partito democristiano perché chi governava il partito, all'epoca Aldo Moro, si era reso conto che avremmo perduto centinaia di migliaia di voti”.

 

Su De Mita invece una volta disse: “De Mita voleva la mia pelle e io mi sono rotto le palle”.

 

“Sono situazioni che fanno parte della dialettica politica. C'è stata prima una grande intesa, un grande incontro. De Mita era mio compagno di studi alla Cattolica a Milano, aveva già una posizione chiaramente di leadership anche dal punto di vista politico. Il suo carattere e il suo interesse erano maggiormente orientati verso la politica rispetto a me e ad altri colleghi. Abbiamo lavorato poi insieme con Sullo nella creazione della corrente di Base che era aperta all'inclusione nel sistema democratico del Partito socialista”.

 

Quanto ha pesato sulla Dc la morte di Aldo Moro?

 

“È fuori discussione che Moro fosse una figura centrale nella conduzione strategica delle alleanze politiche e quindi dell'assestamento del sistema politico-istituzionale italiano. Io però non accetto la teoria secondo cui con la morte di Moro ci fu la rottura del dialogo con il Partito comunista. Io penso che la responsabilità sia da addossare al Partito comunista e alla leadership del momento su questioni di carattere internazionale. La rottura avvenne nel 1978, quasi subito dopo il voto a favore del governo Andreotti, sul problema del serpente monetario europeo. Praticamente il Partito comunista si opponeva affinché l'Italia sottoscrivesse l'accordo. E poi l'altro fatto successivo fu il problema degli euromissili”.

 

Con Craxi che si smarcò nettamente dai comunisti.

 

“Qui ci fu il grande cambiamento della politica italiana. Craxi ricordo che non voleva che si mettesse la fiducia e disse a me che ero capogruppo della Dc che se si poneva la fiducia lui non poteva votarla. Se invece la fiducia non si metteva lui avrebbe approvato la missione che poneva il dispiegamento degli euromissili per controbilanciare quelli installati dall'Unione Sovietica”.

 

Lei è stato capogruppo Dc alla Camera dei Deputati dal 1979 al 1983.

 

“È stata una bellissima esperienza caratterizzata da una intensa attività parlamentare con il Partito radicale che ci costringeva a fare le notti. E qui c'era da trascorrere delle vere e proprie nottate per far approvare i vari provvedimenti. La sera tardi ci ritrovavamo nella ‘residenza', una stanza del segretario generale della Camera. Un grande segretario, Vincenzo Longi il quale cercò sempre di mantenere l'assoluta terzietà della Camera”.

 

A quale politico è stato più vicino nella sua lunga carriera?

 

“Un rapporto importante l'ho avuto con De Mita, con Sullo e poi negli ultimi tempi un rapporto molto intenso e di grande stima l'ho avuto con Donat-Cattin”.

 

Come erano i grandi leader Dc visti da vicino?

 

“Moro l'ho conosciuto benissimo, Fanfani che appariva così antipatico era di una simpatia assoluta. Poi aveva la mania di cucinare. Quando era presidente del Senato e ci invitava varie volte con mia moglie, stava dietro a fare il risotto. La Pira era insieme vicino e distante. Andreotti invece era cinico nella gestione politica. Forlani un grande gentiluomo, uno degli uomini migliori della Dc. Ricordo quando rinunciò alla candidatura al Quirinale. Io insistevo perché rimanesse perché secondo me c'era la possibilità di recuperare i voti dei repubblicani e in più avremmo recuperato molti dei democristiani andreottiani convinti che Andreotti non ce la faceva ma Forlani disse seccamente di “no”. Cossiga, persona coltissima, preparatissima e un grande amore per la classicità, fu sempre molto apprezzato”.

 

Qual è stato il momento più gratificante della sua lunga storia politica?

 

“L'elezione di presidente del gruppo sia nel '78 ma poi soprattutto nel '92. Il biennio '92/'94 viene ricordato solo per Mani pulite, invece fu un periodo di grande importanza perché preparò l'Italia a entrare nella moneta unica europea”.

 

Ma come avveniva allora la scelta dei candidati alla presidenza?

 

“Le elezioni del presidente della Repubblica passavano per il voto interno dei gruppi parlamentari democristiani. Io ero stato eletto da poco, e in genere chi era stato eletto in prima battuta non prendeva posizione, io invece parlai in aula e parlai a favore di Moro. Il voto dei gruppi parlamentari veniva fatto nell'aula del nostro gruppo, e alla fine c'era il controllo fatto dai presidenti dei gruppi, più dai rappresentanti delle correnti interne e alla fine le schede venivano bruciate”.

 

A quante elezioni di presidenti della Repubblica ha assistito?

 

“Se non ricordo male cinque, da Leone fino al Napolitano I. Ho fatto parte come presidente del gruppo dell'elezione di Scalfaro e Ciampi. Durante l'elezione di Scalfaro ('92) la Dc contava ancora 318  parlamentari (206 deputati, 112 senatori ndr) , e poi ero presidente del partito (Popolare) durante la scelta di Ciampi. Qui c'è una cosa che a mio avviso va precisata. Oggi tutti dicono che la scelta di Scalfaro ci fu a seguito dell'eccidio di Capaci. Per quello che io ricordo, ci fu certamente una accelerazione, ma la scelta di Scalfaro era già avvenuta. Era stata fissata la data per la votazione dopo il ritiro di Forlani”.

 

E la candidatura di Andreotti?

 

“Non è mai esistita dal punto di vista reale. Il voto interno era stato tutto a favore di Forlani. Era stata ventilata la possibilità di una sua candidatura ma non avvenne niente di concreto. Anche perché c'era la contrarietà del Partito socialista”.

 

Craxi lavorava al suo schema…

 

“Sì. Il presidente della Repubblica alla Democrazia cristiana, il governo al Partito socialista e la presidenza della Camera a Napolitano. E ritornando a Scalfaro, lui era anche ben accetto da parte di Craxi perché ne era stato ministro dell'Interno e molto vicino a Forlani tanto che quest'ultimo lo sostenne apertamente”.

 

Nel ‘90/'91 è stato ministro della Pubblica Istruzione con Andreotti.

 

“Contro la mia volontà. Io non volevo andare a giurare, ma mia moglie fu pregata da Forlani”.

 

Suo predecessore (democristiano) al ministero della Pubblica Istruzione dall'89 al '90 fu Sergio Mattarella oggi presidente della Repubblica.

 

“Con Mattarella ho avuto rapporti eccellenti da tutti i punti di vista. Il rapporto è stato poi eccellente perché io ero presidente del gruppo e lui relatore della legge che porta il suo nome, il Mattarellum. Nel '94 io sono diventato segretario del Partito popolare e lui nel '96 è eletto capogruppo dei popolari alla Camera. Il presidente Mattarella lo ricordo come austero, severo, cordiale e amico”.

 

Quale giudizio conferisce alla presidenza Mattarella?

 

“Eccellente. È uno dei più grandi presidenti della storia repubblicana. Io scherzando ho detto che con Mattarella si è dissipata la maledizione dei papi sui presidenti democristiani al Quirinale. Mattarella con la rielezione ha disperso questa cosa. Oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che Mattarella è entrato tra i grandi padri della storia e della Dc”.

 

Tra i grandi padri della Dc, chi sono stati i migliori politici?

 

“Svettano De Gasperi e Moro. Però io vorrei fare una precisazione, la storia della democrazia cristiana non si scrive sulla storia dei grandi leader, ma la si scrive sulla storia dei cosiddetti uomini della seconda o terza linea che erano leader locali che avevano anche una dimensione nazionale. Sono uomini come Fiorentino Sullo, Giacomo Sedati… nomi che hanno rappresentato la vera classe dirigente democristiana".

 

Lei crede nella ricostruzione di una grande area di centro?

 

“Vedo un'aggregazione di cose diverse. Se poi c'è del buon condimento nel dare sapore al minestrone va bene. Ma insomma, per ora non è quella la strada che può essere seguita”.

 

Moriremo tutti democristiani?

 

“Sarebbe bello. Il problema però è che questa è una cosa passata. Credo però che finiremo per usare il termine democristiano come discredito, ma la maggior parte dei giornalisti e scrittori non sa cosa veramente è stata la democrazia cristiana. E mi permetto di dire che nel discorso del presidente Mattarella, quando lui usa il termine ‘dignità', ripetendolo una decina di volte, là dentro c'è tutta la cultura del personalismo cristiano, c'è dentro Maritain, e quella è una grande eredità, l'importante non è morire democristiani ma preservare la cultura dei cattolici democratici”.

 

(da il Giornale – 7 febbraio 2022)

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina