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Le nostre cattive abitudini

 

di Angelo Panebianco

 

È in atto una tenace resistenza di forze, politiche e sociali, ma anche di abitudini, così radicate, così incistite, da non potere essere eliminate e nemmeno seriamente ridimensionate. Neppure in presenza di una reale e drammatica emergenza

 

Retorica del cambiamento e immobilismo. C'è il rischio che l'Italia torni alle sue vecchie abitudini. La legge di Bilancio testé approvata dal Parlamento ha subito molte critiche. Grazie agli argini e ai paletti posti dal presidente Mario Draghi e dal ministro dell'Economia Daniele Franco ci sono alcune misure per la crescita. Ma non è stato possibile impedire ai partiti di imporre la solita, massiccia distribuzione di risorse ai loro elettorati di riferimento.

Sono possibili due considerazioni. La prima è che il prevedibile e previsto logoramento del governo dell'emergenza è ormai in atto, in anticipo rispetto a quanto si poteva immaginare ancora pochi mesi fa. Il che condiziona anche l'imminente elezione del presidente della Repubblica nonché il futuro politico di Mario Draghi. Ci sono due possibilità: Draghi passa al Quirinale ed essendo ancora il suo prestigio intatto potrà condizionare (o almeno ci proverà) scelte e attività di governo e partiti, oppure resta a Palazzo Chigi in un esecutivo che sarà sempre più paralizzato dai veti incrociati e dalla intensificazione della competizione fra i partner della coalizione. Basterebbero pochi mesi su una simile graticola e anche il suo prestigio crollerebbe o comunque si logorerebbe.

La seconda considerazione riguarda il rapporto fra parole e fatti, fra la retorica e la resistenza al cambiamento. È in atto la tenace resistenza di forze, politiche e sociali, ma anche di abitudini, così radicate, così incistite, da non potere essere non dico eliminate (il che sarebbe impossibile) ma nemmeno seriamente ridimensionate. Neppure in presenza di una reale e drammatica emergenza (pandemica o di qualunque altro tipo).

Sarà presto chiaro quanto fosse saggio diffidare dell'eccesso di «retorica del cambiamento» che ci è piovuto addosso negli ultimi due anni: «Niente sarà più come prima», «Dobbiamo cambiare tutto», «Sarà un nuovo inizio». Quando si dice di voler cambiare tutto l'esito più probabile è che non cambi nulla: la rivoluzione a parole assomiglia a un tale che finge di correre freneticamente senza spostarsi di un millimetro dal punto in cui si trova. Per lo più, serve a celare agli occhi dei meno attenti che ben poco in realtà si muove. Nessuno può «cambiare tutto», non può esserci mai (si tratti di pubblica amministrazione, giustizia, Mezzogiorno e quant'altro) un «nuovo inizio». Per questo, agli imbonitori sono preferibili coloro che senza enfasi e senza fanfare si sforzano, pragmaticamente, di cambiare solo «qualcosa». Plausibilmente, un elemento che ha rafforzato in questi mesi il prestigio (già inizialmente elevato, ovviamente) di Mario Draghi è stato uno stile di governo sommesso e orientato al fare. In contrasto stridente con lo stile comunicativo, sempre sopra le righe, che è proprio dei partiti.

Vero è il fatto che qui non è in gioco solo il divario fra parole e fatti. Da un lato, c'è una emergenza reale. La pandemia ha messo a nudo, acutizzandoli, tutti i malanni accumulati da un Paese che non cresce da vent'anni. Dall'altro lato, c'è un'Italia, politicamente agguerritissima, che senza negare a parole la gravità della situazione, la nega di fatto con i suoi comportamenti. È troppo comoda la spiegazione che rimanda tutto alle sole responsabilità dei partiti.

È forse più corretto osservare che, al momento, quella vasta ed eterogenea coalizione di interessi che da decenni, condizionandone le scelte, ha condannato il Paese alla stasi e alla decadenza, è ancora assai potente. La combinazione fra una condizione di emergenza e un governo sostenuto da un largo consenso internazionale non è bastata a piegarla. È la coalizione che preferisce dissipare ricchezza (sussidi alle imprese improduttive, reddito di cittadinanza, eccetera) piuttosto che favorire la creazione di ricchezza e con essa di nuove opportunità di lavoro. È indifferente al fatto che i giovani abbiano poche possibilità di impiego e che, quando lo trovano, siano condannati — anche i più capaci fra loro — ad accontentarsi di bassi stipendi con poche prospettive di serio miglioramento. Non le importa se le istituzioni educative, a causa del degrado da tempo in atto nella scuola, non sono più in grado di generare, in quantità e qualità sufficienti, il capitale culturale che servirebbe sia alle persone che al Paese. È la coalizione che si nutre delle rendite di posizione alimentate dalle inefficienze dell'amministrazione pubblica centrale, delle istituzioni giudiziarie, e di tante amministrazioni periferiche (si ricordi l'incapacità di certe regioni di approntare piani tecnicamente validi per l'impiego dei fondi europei). Campa di debito pubblico anziché di ricchezza prodotta.

È persino pronta a rinunciare ai fondi europei se constata che non potrebbe metterci le mani sopra senza pagare qualche prezzo, senza la cancellazione di qualche piccolo o grande privilegio.

Concorrono ad alimentarne la forza vari fattori. In primo luogo, la demografia. Un Paese che invecchia perché non fa figli è sempre meno interessato a investire sul futuro. Poi conta il carattere della nostra democrazia. Un assetto politico-istituzionale che alimenta la frammentazione politica e ove i poteri di veto prevalgono quasi sempre sul potere di decisione, è una bazza per chiunque sia interessato a preservare lo status quo.

Naturalmente, c'è anche l'altra Italia, quella delle eccellenze, quella che, nonostante le difficoltà, riesce a generare ricchezza materiale e capitale culturale. È l'Italia che si è sentita più rappresentata dal governo Draghi e alla quale guardano i migliori fra coloro che compongono l'attuale Esecutivo.

Nemmeno l'emergenza sembra però avere modificato davvero il rapporto di forza fra le due Italie. Si spera che in futuro, per qualche fortunata combinazione, gli equilibri politici non siano tali, per lo meno, da ostacolare le azioni spontanee e le iniziative autonome di tutti coloro che nel nostro Paese cercano e creano opportunità di vita e di lavoro. È difficile ottenere di più dalla politica.

 

(dal Corriere della Sera – 3 gennaio 2022)

 

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