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A tu per tu con Antonio Martino

 

Di Federico Bini

 

Figlio di una delle più illustri famiglie del liberalismo italiano e internazionale, Antonio Martino da poco nominato presidente onorario dell’Istituto

Milton Friedman, suo professore e amico, ricorda con gioia gli anni vissuti da grande docente e ministro della Repubblica

 

Presidente Martino, oggi tutti si definiscono liberali ma quali sono le vere caratteristiche per essere un autentico liberale?

 

Il liberale deve essere sempre desideroso di proteggere le libertà di cui gode, quindi è conservatore perché vuole conservare le libertà esistenti. Deve

saper essere radicale, cioè accettare anche i cambiamenti profondi della società per riconquistare nuovi spazi di libertà. Deve saper essere reazionario

per recuperare libertà che sono andate perdute. E anche rivoluzionario perché se non c’è altro modo di sbarazzarsi di un dittatore la rivoluzione è accettabile.

Quindi liberale è tutte queste cose a seconda delle circostanze, perché a lui importa solo della libertà. Ed è sempre progressista perché senza libertà

non c’è mai progresso.

 

La classe dirigente liberale, pensiamo a Giovanni Giolitti, con il processo di “costituzionalizzazione” del fascismo non spianò la strada a Mussolini commettendo

un errore imperdonabile?

 

Giolitti non sottovalutò il fenomeno Mussolini. Il politico piemontese, a quelli che gli dicevano che doveva alzarsi per difendere la dignità del Parlamento

dopo il discorso di Mussolini alla Camera del 1922 (in cui disse che avrebbe potuto trasformare “quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli”)

rispose: “Io non farò nulla del genere, perché questo Parlamento non è riuscito a darsi un governo e il paese se l’è dato”, e aggiunse: “Ogni popolo ha

il governo che si merita!”. Battuta certamente amara, dettata dalla sua delusione per come si fossero comportati tutti gli altri.

 

Qual è il suo giudizio storico e politico su Giolitti?

 

Giovanni Giolitti non è il mio liberale preferito. Perché Giovanni Giolitti che è stato uno statista di notevole statura, certamente liberale, era però convinto del principio dell’inclusione. Fu lui a fare il Patto Gentiloni, per far votare i cattolici e incluse i cattolici. Provò a includere i socialisti

senza successo. E finì con il ritrovarsi i fascisti. Questo suo atteggiamento compromissorio, quello di coinvolgere tutti, ha un fondamento pratico innegabile,

ma secondo me non è consono o conforme con l’essenza del liberalismo.

 

Nella elevatissima disputa tra Croce ed Einaudi Lei da che parte sta?

 

Nel dibattito con Einaudi, Croce aveva dalla sua che usava la lingua italiana in maniera fenomenale – l’italiano di Croce è stupendo! – ma anche Einaudi

non scherzava e nel merito aveva ragione Einaudi. Croce sosteneva che la libertà economica è meno importante della libertà politica, perché sosteneva che

l’economia era una cosa secondaria. Un grave errore. Le cosiddette libertà economiche sono il contenuto della libertà, senza libertà economica, la libertà

politica non ha senso. La dimensione economica è importantissima.

 

Alle elezioni per la Costituente, il Partito Liberale confluì nell’UDN (Unione Democratica Nazionale). In Costituente poi però si frantumò e i liberali

formarono un gruppo proprio con esponenti come Croce, Einaudi, Martino, Bozzi.

 

In questo gruppo c’era il fior fiore dell’intelligenza italiana. I geni migliori erano lì. A cui si aggiungevano Barzini, Pucci, c’erano una infinità di

valori in tutti i campi. Erano tutte persone che davano lustro all’idea liberale. Quel tipo di rappresentanza di alta qualità del PLI ha continuato ad esserci ma in modo via via sempre più flebile e la responsabilità di questo è soprattutto di uno che era un uomo politico di valore, ma che non era liberale:

Giovanni Malagodi.

 

Lei definì Giovanni Malagodi “un socialista”.

 

E lui si arrabbiò tantissimo. La ragione per cui gli dissi questo è facile da comprendere. Malagodi fece una battaglia autenticamente liberale con idee liberali

nel 1963. Il partito prese un milione di voti, raggiungendo un traguardo storico a livello percentuale. Però l’Assolombarda che aveva finanziariamente

appoggiato Malagodi voleva che invece di un governo di centro-sinistra si facesse un governo di centro. Invece il governo di centro-sinistra si riformò

e l’Assolombarda delusa lo mollò. Malagodi offeso da quello che considerava un comportamento vergognoso cominciò a spostarsi via via sempre più a sinistra

tanto che nel 1980 ebbe l’imprudenza di dire che il PLI appoggiava Carter e non Reagan. Allora io feci una lettera al Giornale in cui scrissi: “È la prima

volta che vedo un ratto che sale sulla nave che affonda”. Lui mi rispose con una letteraccia. Però era chiaro che l’avevo colpito.

 

Il ricordo di suo padre come uomo politico e uomo privato?

 

Io ero un grande estimatore di mio padre. Nel senso che lo stimavo enormemente, mi appoggiavo a lui perché era una persona fuori dal comune. Quando andai

ad un suo comizio, avevo 13 anni, entusiasmato, non era un grande oratore, lui faceva un’analisi fredda, mi ricordo i commenti della gente che in siciliano

diceva: “Ha parlato bene, non ho capito niente”. Dopo il discorso gli dissi: “Papà, io vorrei fare politica”. E lui: “È una buona idea, però la potrai

fare soltanto dopo che avrai trovato un posto nella società”. Mio padre, in apparenza gelido, era in realtà un vulcano di sentimenti, di passioni. Era

un uomo che si commuoveva quando vedeva i poveri per strada. Una volta telefonò a mia madre e gli disse: “Sai quel vestito… me lo dovresti incartare perché

l’ho promesso a un mendicante”, mia madre gli rispose che lo aveva già dato via, e allora prontamente ribatté: “Incarta il vestito nuovo che ha portato

Procida e gli diamo quello”. Gli regalò un vestito nuovo che nemmeno aveva mai indossato, fatto da un sarto fantastico.

 

Nel governo Scelba, suo padre, Gaetano, divenne ministro degli Esteri su indicazione dello stesso De Gasperi. Un grande attestato di stima.

 

Alcide De Gasperi segnalò mio padre alla DC al posto di Attilio Piccioni che si era dimesso perché i giornalisti avevano a torto implicato Piero Piccioni

nello scandalo Montesi.

 

Nel processo di costruzione europea c’è un pezzo importante del nome della sua famiglia (e della sua terra, la Sicilia).

 

Uno dei primi impegni che ebbe quando divenne ministro degli Esteri fu a Londra alla conferenza che creò l’Unione europea occidentale. Erano arrivati a

un punto di stallo, perché il tedesco aveva detto che non avrebbe firmato il protocollo se questo conteneva la clausola del disarmo della Germania. Mio

padre a quel punto invitò tutti ad uscire, compresi i giornalisti che dissero: “È fallita la conferenza”. Quando uscirono tutti lui disse: “Da quello che

ho capito il collega tedesco non firma il protocollo se contiene la clausola sul disarmo della Germania, ma è disposto a firmarla se il disarmo della Germania

fa parte di un atto diverso, e così si trovarono d’accordo”. Uscirono e il francese disse: “C’est le triomphe de l’incompétence!”.

 

Nel 1954 per mano dei socialisti francesi naufraga il progetto della CED.

 

Questa era stata una proposta francese, ma le elezioni politiche nazionali aveva portato al governo i socialisti francesi di Pierre Mendès France, e quindi

questi erano contrari e non la votarono. Questa fu una doccia fredda per gli entusiasmi degli europeisti. Mio padre convocò nell’anno successivo, 1955,

una conferenza dei ministri degli Esteri della CECA, la cosiddetta piccola Europa (Germania, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo). La conferenza

si tenne il 1° giugno a Messina e il 2° giugno a Taormina. Nella notte del 2 giugno mio padre riuscì a convincere gli altri ministri degli Esteri a puntare

sulla integrazione economica sia perché desiderabile di per sé sia perché avrebbe eliminato uno dei fattori che portano alle guerre cioè le barriere protezionistiche.

Non è che tutti fossero entusiasti però si trovarono d’accordo.

 

Quanto hanno influenzato la sua formazione culturale e politica due grandi figure come suo padre e Milton Friedman?

 

Tantissimo. Mio padre è stato un grande liberale. Lui aveva una caratteristica, che essendo uno scienziato, un fisiologo, aveva una logica stringata e una

rapidità di pensiero incredibile. Mio padre che aveva un’apparenza glaciale era in realtà di una umanità fenomenale. Era un uomo pieno di sentimenti. Di

Milton Friedman io sono stato studente e suo amico per quarant’anni. M. Friedman l’ho conosciuto nell’ottobre del 1966. L’ultima volta che ho parlato con

lui è stato il 31 luglio del 2006. Avevamo appena perso le elezioni e quindi io non ero più ministro. L’ho chiamato perché il 31 luglio era il suo compleanno

e appena ha sentito la mia voce ha detto: “Antonio hai perso il lavoro!”.

 

Come lo ricorda?

 

Di statura bassa, ma appena cominciava a parlare diveniva un gigante. Aveva una rapidità e una profondità di pensiero che erano fenomenali. È stato secondo

me uno dei più grandi economisti del XX secolo. E uno dei più grandi economisti monetari di tutti i tempi. Nel 1973 lui ebbe un’operazione a cuore aperto

in Minnesota, dopo l’operazione, con la moglie Rose decisero di venire in Italia per un periodo di vacanza e andò a Siena. Io e mia moglie andammo a trovarlo.

Siamo stati assieme un paio di giorni e veramente mi resi conto di quanto era grande, anche se lo sapevo già. Andammo all’Università di Siena e uno studente

gli chiese se fosse Galbraith e lui rispose: “No, non sono John Kenneth Galbraith”. Non gli somigliava fisicamente affatto, come economista tantomeno!

 

Nel suo libro Liberalismo Quotidiano (Liberilibri) rilancia molte delle idee del suo maestro Friedman.

 

M. Friedman diceva: “Io sono un liberale, ma non un liberale del XX secolo, sono un liberale del XIX secolo”. Lui invece sbagliava secolo. Lui era un liberale

del XXI secolo. Molte delle sue idee sono più valide di quando lui le ha presentate: esempio la flat tax. Sono passati settantuno anni da quando lui l’ha

proposta eppure è attualissima e sarebbe una proposta estremamente utile in questo momento.

 

La sua esperienza nei governi Berlusconi?

 

Io sono stato ministro degli Esteri e ministro della Difesa. Ora la politica estera e la difesa, non sono due dei tanti compiti di uno Stato come si pensa

oggi, sono lo Stato. Non è mai esistito nella storia millenaria dell’umanità uno Stato senza difesa e politica estera. Da ministro degli Esteri sono riuscito

a far accettare alla comunità internazionale che con il governo Berlusconi l’Italia non era ridiventata fascista, è vero che c’era in Parlamento Alessandra

Mussolini, ma questo non voleva dire che il Duce era tornato a Palazzo Chigi. E lo hanno accettato. Quando Beilin, viceministro degli Esteri israeliano

disse che Israele doveva interrompere i rapporti diplomatici con l’Italia perché era tornato il fascismo, il ministro degli esteri Shimon Peres rispose:

“Ci sarà pure una ragione per cui sopra un viceministro degli Esteri c’è sempre un ministro degli Esteri”.

 

L’amicizia con Margaret Thatcher?

 

Eravamo molto amici. Io l’ho conosciuta prima di entrare in politica. Quando andai a Londra come ministro degli Esteri per l’incontro con Douglas Hurd,

M. Thatcher non era più primo ministro, c’era John Major. Allora di nascosto, perché in forma ufficiale non andava bene, andai a trovarla. Mi aspettava

sulla porta di casa e appena mi vide mi disse: “Noi di destra dobbiamo stare assieme”. Sono stato due ore con lei e mi sentivo a disagio tutto il tempo.

Ma di lei ho un ricordo ancora più bello. Una volta andai a Firenze per un incontro proposto da una fondazione americana. Nella pausa caffè lei stava guardando

dal loggiato in collina la bellezza della città sotto il sole, mi sono avvicinato e quando mi ha visto ha detto: “È un bel paese con un governo marcio”.

Dico, “Cara Signora, il contrario sarebbe molto peggio!”.

 

Perché è fallita la rivoluzione liberale?

 

Molte delle cose promesse con la rivoluzione liberale non le abbiamo potute fare perché i governi erano tutti di coalizione. I nostri alleati si impegnavano

prima delle elezioni a realizzare il programma che noi avevamo presentato, appena si faceva il governo cambiavano idea. Ad esempio non abbiamo potuto fare

la riforma della giustizia perché si opponevano Casini e Fini.

 

Cosa manca in politica oggi?

 

Il coraggio. Senza Hitler, Churchill sarebbe solo uno storico discreto e un mediocre pittore. Grazie a Hitler è un grande statista, perché il suo coraggio

e la sua eloquenza svegliarono gli inglesi e li convinsero ad armarsi contro il pericolo nazista. Nel discorso alla radio l’uomo aveva una carica emotiva

nella voce che per un inglese è incredibile.

 

Cosa pensa dell’attuale Unione Europea?

 

Proprio perché io quella scelta la rivendico con orgoglio a mio padre, io detesto l’Unione Europea e credo che dovrebbe essere detestata da tutti perché

quello che sta facendo rischia di screditare il più nobile ideale che la storia abbia dato all’Europa del XX secolo.

 

(da Il Giornale - 12 novembre 2021)

 

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