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E allora il Pd? - La grande bonaccia del Nazareno nel maremoto della politica italiana

di Mario Lavia

«E allora il Pd?» è stato un grande classico del web negli anni del grillismo rampante – sembrano secoli – e dell’uscita di Giorgia Meloni dagli scantinati della politica. Matteo Renzi regnante, qualunque cosa veniva imputata al Nazareno, il che alla fine lasciò morti e feriti anche dopo che il segretario fiorentino se n’era andato da quel palazzo. Però la domanda si può a maggior ragione porre oggi che il Pd di Enrico Letta si sta riprendendo dopo il biennio zingarettiano che nemmeno si ricorda più bene cosa sia stato.

 

E allora il Pd, che fa? Si è aggiudicato bene le grandi città dove si è votato, sfruttando gli svarioni della destra e la nebulizzazione del Movimento 5 stelle che, messi insieme, hanno dato fiato all’astensionismo. Un bel risultato, e in bocca al lupo soprattutto a chi ha il compito più difficile, Roberto Gualtieri, che ha già fatto, a Repubblica, un discreto elenco di promesse che la metà basta come si dice a Roma. Si è un po’ringalluzzito, il Nazareno, senza eccedere («un trionfo senza trionfalismo», Letta), anche perché non può far finta che più metà degli elettori chiamati alle urne sono restati a casa.

Però si ha come la sensazione che in fin dei conti al Pd la situazione vada bene così com’è con la fiducia che per inerzia i risultati verranno, dunque meglio non agitarsi troppo. La cosa balza agli occhi tanto più tutti gli altri si stanno muovendo: e non si tratta solo delle grandi manovre per il Quirinale ma di qualcosa di più strutturale, di profondo (almeno nelle intenzioni). Persino Pier Luigi Bersani, capo spirituale di un partito dalle ambizioni ridotte, ha avanzato la suggestione – anche se non chiarissima – di una «novità» a sinistra, una cosa tipo Federazione del centrosinistra.

 

Da parte sua Giuseppe Conte tenta in tutti i modi di accasarsi nei dintorni del Pd, unica áncora di salvezza per il suo M5s ormai privato del senso originario di soggetto antipolitico-antistituzionale, e ridotto a ruotino di scorta vagamente movimentista e verde, con la Paola Taverna tra i vicepresidenti a testimoniare il ricordo dei bei tempi quando dava ai dem dei mafiosi. Ma anche l’avvocato ha avanzato una sua idea: un centrosinistra unito ma senza Carlo Calenda e Renzi. I quali, da par loro, dicono no proprio a Conte.

 

Ma il movimento è soprattutto al centro, o meglio, nel centro del centrodestra. L’intervista a Repubblica di Renato Brunetta segna una novità di non poco conto perché squaderna la tendenziale incompatibilità tra Forza Italia-Partito popolare europeo e i sovranisti di destra ponendo come discrimine la questione centrale del nostro tempo – l’Europa – e per questa via trovando in Mario Draghi l’imprescindibile punto di riferimento, con la prefigurazione di una nuova coalizione a sostegno del premier che ricomponga le attuali forze intorno ai tre poli europei socialista, liberale, popolare.
In altri tempi un’intervista del genere avrebbe innescato una crisi di governo, oggi esclusa perché non conviene a nessuno e tantomeno al Paese: bastò che il segretario del Partito socialista italiano Francesco De Martino evocasse in un articolo «equilibri più avanzati» per andare alle elezioni nel 1976.

Si muovono, scompostamente, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (quest’ultimo sempre meno decifrabile) e torna finanche sulla scena il vecchio Silvio Berlusconi già a caccia di quelle decine di voti che gli mancano per diventare, seguendo il filo dei suoi sogni, presidente della Repubblica.

Chi è che invece non si muove? Indovinato: il Partito democratico. Quella del Nuovo Ulivo da Bersani a Renzi passando per Conte e Calenda, come abbiamo visto, è una proposta già bocciata da tutti quelli che ne dovrebbero far parte, una suggestione che non suscita il benché minimo entusiasmo neppure – anzi, meno che mai – negli ulivisti autentici (Arturo Parisi: «Troppe condizioni sono venute meno rispetto a 25 anni fa»), che non può parlare ai giovani che all’epoca non erano nemmeno nati, e che, dulcis in fundo, non ha più la cornice del sistema maggioritario che ne è la decisiva premessa di sistema.

Letta appare piuttosto rigido nelle sue certezze a partire da quella secondo cui il bipolarismo si è rafforzato («O di qua o di là»), convinzione rafforzata dalla illusione ottica, come ha osservato ieri Angelo Panebianco, indotta dal doppio turno, sistema di voto che nessuno prende in considerazione per le politiche nazionali; mentre dovrebbe chiedersi come mai stia tornando in auge con forza il proporzionale, anche secondo storici sostenitori del maggioritario.
Accontentandosi di inanellare singole battaglie identitarie (ultima, quella per lo scioglimento di Forza nuova), il leader del Pd non ha ancora avanzato nessuna proposta organica, complessiva, di sistema, politica in senso forte, né in Parlamento né nella società.

 

Vero, c’è qui l’iniziativa del segretario, quella delle Agorà (peraltro tuttora abbastanza misteriose), ma che assai improbabilmente metterà in moto un qualsiasi processo politico e se va bene funzioneranno per discutere di qualche proposta concreta peraltro slegata da un contesto generale, come ha fatto osservare Antonio Floridia sul Mulino, bocciando l’idea della devoluzione all’opinione pubblica del compito, tipico del partito, di formulare proposte: «Non ci si può non chiedere, infatti, a che titolo i partecipanti a una Agorà possono essere i beneficiari di questa sorta di devolution. Che legittimazione democratica possono avere 20-40 persone che si auto-selezionano e che avanzano proposte al partito? E perché mai il Partito dovrebbe o potrebbe accoglierle?».

E ancora: «Un partito non può essere un mero collettore della voce dei cittadini, il megafono di quel che vuole la gente: un partito ha il compito di formare l’opinione pubblica, di orientare il dibattito politico, di immettere idee e valori nella discussione pubblica». Si vedrà come finirà questa iniziativa. Per il momento, tutto tace. Chissà se qualche considerazione verrà fatta nella riunione della Direzione della prossima settimana.

Dunque, la tentazione in cui non vorremmo – per lui – che Letta cadesse è quella di aspettare che gli altri si scannino tra di loro (centrodestra) o esauriscano del tutto la spinta propulsiva (M5s), sedando il dibattito interno e facendo mostra di apertura tutta politicista (il Nuovo Ulivo) invece che produrre idee e individuare una strategia vincente per le prossime elezioni (qui sta il nodo irrisolto del rapporto tra Pd e Mario Draghi).

 

Ci sarebbe materiale da discutere in un bel Congresso. Perché se sulla destra si avvicina la buriana, è illusorio pensare che al Pd possa andar bene la grande bonaccia e incedere sottocosta a motore spento.

(da www.linchiesta.it - 23 ottobre 2021)

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