Di Aldo Torchiaro
Aumenta il caos nel Movimento Cinque Stelle, il giorno dopo l’approvazione in consiglio dei ministri delle linee-guida per la riforma della giustizia. Alfonso
Bonafede e Giuseppe Conte escono allo scoperto e puntano i piedi contro la riforma della prescrizione. Ne contestano visceralmente l’accordo, usandolo
come grimaldello per sferrare l’attacco contro il governo Draghi, nel mirino di Conte sin dall’inizio del suo lavoro ai fianchi di Grillo.
Bonafede è in caduta libera: vittima eccellente della riforma Cartabia, unico ex ministro di peso estromesso dal Comitato dei 7 saggi, è passato dalle stelle
alle stalle in poche settimane. Non voluto più da Grillo, non gradito più a Di Maio, tradito da Patuanelli, è rimasto sull’uscio di casa Conte, in attesa
di un cenno dell’amico e collega. Cenno che arriva in formato video.
L’ex premier appare in un collegamento con Genova, dove parla ai giovani di Confindustria, fingendo un diplomatico passo di lato: «Non sono qui come leader
dei Cinque Stelle, ad oggi sono un privato cittadino». Ma nel collegamento in diretta invita a «non cantare vittoria sulla prescrizione», intestandosi
la resistenza contro la Cartabia. L’ex premier spiega che sulla riforma ritorna «l’anomalia italiana. Chi canta vittoria non trova il mio consenso», ribadisce.
«I processi non possono svanire nel nulla», dice Conte a proposito dell’improcedibilità.
«Non per una battaglia di contrapposizione contro Draghi ma per fare una proposta che sento come dovere a nome di tutti coloro che hanno sostenuto il Movimento
Cinque Stelle». La strada per la riforma Cartabia non è più tutta in discesa come era parso ieri, quando una telefonata tra il premier Draghi e Beppe Grillo, l’ennesima, aveva risolto la tensione a favore del governo. Rispetto allo stallo degli ultimi giorni: «Ora qualcosa è cambiato», si lascia sfuggire una fonte parlamentare.
Il cambiamento è la faglia apertasi tra Di Maio e Bonafede, tra l’anima vicina a Grillo e quindi più leale al governo Draghi, e la componente che si riconosce
in Conte, decisamente più ostile nei confronti dell’esecutivo. A dimostrazione che tra il garante e il leader in pectore «il problema non riguarda solo
qualche cavillo sullo statuto», osservano dal Movimento. Così, mentre si scioglie la antica alleanza tra Di Maio e Bonafede, ecco un nuovo patto che si
stringe: Conte è pronto a salire sulle barricate con Alessandro Di Battista, che non ha mancato di sparare a palle incatenate verso i suo ex compagni di
viaggio. «Non è vero che Draghi è grillino, sono certi grillini ad essere ormai irrimediabilmente diventati draghiani. Intimoriti o interessati, i ministri
a 5 stelle hanno dato prova di incapacità politica, pavidità, accidia e inadeguatezza», ha scritto Dibba. Ormai l’accusa di “Incapacità politica”, con
le parole che Grillo ha rivolto a Conte, è l’etichetta che ciascun pentastellato è pronto ad affibbiare all’altro.
Nel fuoco incrociato, rimane bruciacchiato anche il Pd. Tutta la strategia di sostegno a Bonafede sulla giustizia costruita da Bettini e Zingaretti negli
ultimi due anni e avallata da Enrico Letta finisce gambe all’aria. Ma il segretario dem fa buon viso a cattivo gioco e gioisce per l’accordo sulla prescrizione.
E nel gioire, prende perfino lui le distanze dalla prescrizione di Bonafede, che adesso diventa brutta e cattiva anche per il Pd, guarda un po’. «Era una
riforma gialloverde, fatta durante il primo governo Conte, lo voglio ricordare perché qualcuno ne parla come se ci fossimo in mezzo noi».
Ha buon gioco Enrico Costa, deputato di Azione, nel coglierlo in fallo: «Il segretario del PD esulta per la riforma della prescrizione? E sostiene che lo
stop fu approvato dal Governo gialloverde? E che dice della strenua difesa che il suo partito, una volta al Governo nel Conte bis, fece della riforma Bonafede?
Decine di miei emendamenti e atti di indirizzo per affossare lo stop alla prescrizione rigettati dall’asse Pd-M5S. Nessuna convinzione, solo convenienze».
A consolidarsi è la complicità tra l’ex premier ed il suo ex guardasigilli. Quella tra Bonafede e Conte è da sempre una relazione speciale, cresciuta negli
anni all’ombra della Cupola del Brunelleschi e poi celebrata solennemente nei saloni del Quirinale, con i giuramenti Conte I e II. È stato lo scudo imposto
da Conte alla richiesta di sfiducia individuale verso Bonafede a causare la fine del suo governo. E oggi i due si trovano riuniti a organizzare la Vandea,
insieme a quei deputati pentastellati che chiedono di uscire dal governo. «L’unica cosa da fare adesso è essere coerenti: non ci sono più le condizioni
per restare nell’esecutivo», dice ad esempio Giulia Sarti. «Se al governo non conti nulla meglio stare fuori», le fa eco Vittorio Ferraresi (M5s), ex sottosegretario
alla Giustizia.
Un problema che gli analisti iniziano a porsi, a partire dalla conta numerica. I deputati propendono per Grillo, il Senato è saldamente con Conte. Grillo
non parla in prima persona ma fa comparire una nota sul Blog delle Stelle che è un po’ la Pravda grillina. L’unica voce ufficiale riconosciuta. «Sulla
riforma della giustizia, in queste ore stiamo sentendo e leggendo ricostruzioni d’ogni tipo. Ma, per fortuna, ci sono i fatti. E i fatti dimostrano che
è stato fatto un lavoro che ha consentito di salvare la riforma della prescrizione che gli altri partiti avrebbero voluto cancellare del tutto, con un
colpo di penna». Ed ecco la sintesi che sarebbe stata da Di Maio a Spadafora: «Cosa è successo in queste ore? Di fronte a una proposta iniziale che, di
fatto, smantellava tutto quanto fatto in questi anni, abbiamo combattuto. Con le armi che abbiamo, dentro una maggioranza che sul tema la pensa diversamente
da noi. Ma siamo riusciti a ottenere una serie di risultati. Se non ci fossimo stati noi, l’esito sarebbe stato molto diverso. Ma attenzione: questo testo
dovrà andare in Parlamento. E ci proveranno, state sicuri, tutti, a smantellare le conquiste che abbiamo ottenuto. Dobbiamo farci trovare pronti, ancora
una volta a difendere col coltello fra i denti quanto conquistato. E non sarà facile, siatene certi», conclude il post.
Parole d’ordine di una volta, stavolta per rendere digeribile un compromesso impegnativo su un principio di bandiera tanto centrale. Le barricate in Parlamento
la deputata contiana Giulia Sarti le farà per contrastare l’accordo: «Ieri si è consumato in Consiglio dei ministri il tradimento di tutto ciò per cui
abbiamo lavorato duramente subendo insulti, pressioni e attacchi personali pesantissimi», ha scritto ieri su Facebook. «Una delle condizioni principali
per il nostro ingresso nel governo Draghi era quella di non toccare le leggi e i risultati faticosamente ottenuti da tutti noi, durante i governi Conte.
Ora, le condizioni che avevamo posto per restare in questo governo sono state tutte completamente disattese». Si prepara un Vietnam parlamentare? «Macché
Vietnam, il M5S è morto. È finito. Ma ancora non glielo hanno detto, quindi non lo sanno. Lasciamoli fare», risponde Matteo Renzi, impegnato nella presentazione
del suo ultimo libro, Controcorrente. Dal vice presidente del gruppo di Iv alla Camera, Marco Di Maio, ironia sulla spaccatura in casa M5S: «Conte non
sorride e Bonafede non è soddisfatto della riforma della giustizia penale firmata Cartabia: è la conferma che siamo sulla strada giusta. Al lavoro in Parlamento
per rafforzare questi interventi: il giustizialismo non deve più trovare spazio nel nostro ordinamento».
Intanto lo stallo generale del Movimento continua a generare ripercussioni a cascata nei territori. A Roma l’auto-ricandidata Virginia Raggi non espone
il simbolo del partito; non si capisce bene se non vuole, non può, o se sono vere entrambe le cose. Di certo si sa che sta lavorando a una lista civica
a suo sostegno, alternativa a quella del Movimento. Il vice-sindaco della sua giunta, Luca Bergamo, è corso all’inaugurazione del comitato elettorale di
Roberto Gualtieri, Pd, insieme a quattro ex Cinque Stelle. Proprio da Roma arriva la novità della giornata, con l’indicazione da parte del Tesoro, su proposta
di Draghi, del sovrintendente dell’Opera di Roma, Carlo Fuortes, a nuovo Ad Rai. Esperto di management culturale, mai andato d’accordo con la Raggi e piuttosto
distante dai Cinque Stelle, la sua nomina al posto di Fabrizio Salini costituirà per il M5S e per Conte un altro vistoso passo indietro.
(da Il Riformista – 10 luglio 2021)