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L’impazzimento della politica in attesa delle primarie di autunno, camuffate da amministrative

di Francesco Cundari

Nel giro di poche ore Matteo Salvini è apparso ieri sulle agenzie per aver firmato un manifesto contro la tecnocrazia europea – insieme con Giorgia Meloni, Marine Le Pen, Viktor Orbán e tutto il meglio dell’estrema destra illiberale e autoritaria del continente – e per essere tornato a candidare pubblicamente Mario Draghi, ex presidente della Bce, vale a dire il più illustre esponente di quella tecnocrazia, a capo dello Stato. E in fondo, va detto, in fatto di coerenza appare quasi un progresso, almeno rispetto alla giornata di ieri, in cui alternava messaggi di solidarietà per gli agenti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere (quelli ripresi mentre pestavano i detenuti) e appelli per una riforma garantista della giustizia. Il problema è che nel dibattito politico attuale un simile delirio, ormai, non è l’eccezione. È la norma.

Del resto, c’è forse qualcuno che sarebbe in grado di indicare in cosa si distinguerebbero, dal punto di vista politico e programmatico, nel rapporto con il governo e con gli altri partiti, i movimenti di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, e potrebbe dunque spiegare in termini razionali su quali basi gli eletti del primo gruppo parlamentare del paese si starebbero dividendo in queste ore? Cosa comporta, per il futuro del paese, il prevalere dell’uno o dell’altro? Ce n’è forse uno che è più favorevole al governo Draghi e uno che è più ostile, uno più europeista e uno meno, uno più vicino alla sinistra e uno più orientato a destra? Qualcuno di voi l’ha capito?

E cosa dire del Partito democratico, schierato contemporaneamente a sostegno di Draghi, ma anche di Conte, senza tuttavia nulla togliere a Grillo, principale sponda e artefice tanto dell’accordo sul secondo governo Conte quanto della svolta a favore del governo Draghi? E cosa dire di Forza Italia, o di quel che ne resta? Non parliamo poi di Liberi e uguali, formazione nata dall’unione tra Articolo 1 e Sinistra italiana al solo scopo di superare la soglia di sbarramento al 3 per cento (centrato d’un soffio, perché non c’è impostura, piccola o grande, che gli elettori del 2018 non abbiano voluto premiare) e ormai già archiviata, con la silenziosa separazione dei due micropartiti costituenti.

All’origine di tante stranezze stanno, verosimilmente, le forze centrifughe tenute a freno dalla maggioranza di unità nazionale (benedetta) e dal semestre bianco (benedettissimo). Un po’ è questione d’istinto: perché anche i partiti, costretti in gabbie sempre più piccole e sempre più affollate, tendono naturalmente a sviluppare reazioni aggressive e comportamenti contraddittori (per non dire schizofrenici). Un po’, però, è anche questione di calcolo: perché le energie tenute così a lungo compresse, prima dalla sospensione del conflitto politico imposta dalla pandemia e poi dalla maggioranza di unità nazionale raccolta attorno a Draghi, troveranno sfogo nelle elezioni amministrative di ottobre, che finiranno per essere le vere primarie per la leadership tanto nella coalizione di centrosinistra quanto in quella di centrodestra (a condizione che nel frattempo il centrodestra riesca a trovare dei candidati, fossero pure dei prestanome, per la carica di sindaco).

Per quanto riguarda il centrosinistra, sulla carta, dal voto nelle città Enrico Letta dovrebbe trovare quella legittimazione di cui finora non ha potuto godere. Con la vittoria di Beppe Sala a Milano (praticamente scontata) e di Roberto Gualtieri a Roma (non scontata ma possibilissima), il segretario uscirebbe dalla tornata elettorale ben più forte di come ci entra. Ben diverso sarebbe però lo scenario se i romani decidessero di mandare al ballottaggio con il candidato della destra, Enrico Michetti, la sindaca uscente, Virginia Raggi (ipotesi ancora accreditata dai sondaggi, ma che chiunque viva nella capitale non può davvero prendere sul serio, a meno che non votino i gabbiani). Non parliamo poi dell’ipotesi in cui fosse Carlo Calenda ad andare al ballottaggio, o comunque a raggiungere il candidato del Pd. Dal giorno dopo, di fatto, il leader del centrosinistra sarebbe lui (almeno per le prime due settimane, perché dopo, conoscendolo, è probabile che litigherebbe con tutti, si scinderebbe pure da Matteo Richetti e fonderebbe un altro paio di partiti, ma questo è un altro problema).

 

Quanto al centrodestra, il tentativo salviniano di coprire tutte le posizioni possibili, marcando Meloni sul fronte illiberal-sovranista, ma anche Forza Italia sul fronte europeista, moderato e liberale, dimostra come la corsa sia già cominciata. E questo, paradossalmente, è anche il motivo per cui non riescono nemmeno a mettersi d’accordo sui candidati a sindaco.

 

Quali che siano i risultati, il voto amministrativo segnerà rapporti di forza e linee di tendenza dell’ultima parte della legislatura, giusto tre mesi prima dell’elezione del capo dello stato. Le uniche certezze sono dunque che quel giorno, di fatto, si aprirà la corsa verso le politiche; che i conti, tanto per i partiti quanto per i leader, si faranno a partire da quei risultati; e che difficilmente, nei dibattiti in cui tali risultati saranno annunciati e commentati, risuonerà il nome di Giuseppe Conte o del suo fantomatico, eventuale, nuovo e per allora già vecchio partito.

(da www.linchiesta.it - 4 luglio 2021)

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