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Giustizia da salvare, con i fatti

di Caterina Malavenda

I risultati del sondaggio di Pagnoncelli non hanno sorpreso nessuno, se non forse per l'ampiezza del crollo

"Ma possiamo fidarci di loro?". Quando "loro" sono i magistrati e a chiederlo al suo avvocato non è un piccolo spacciatore o un ladro abituale, ma la vittima di un reato, che si è rivolta al giudice per avere giustizia e diffida di lui, qualche domanda bisogna pur cominciare a farsela.

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli, sul livello di fiducia nella magistratura, pubblicato sabato e fatto utilizzando "un campione casuale nazionale rappresentativo della popolazione italiana", con risultati non certo gratificanti per la magistratura, non ha sorpreso nessuno, se non forse per l'ampiezza del crollo di credibilità rilevato, anche al di là dei reali demeriti di alcuni dei suoi componenti, non certo la maggioranza.

La giustizia, si sa, funziona solo quando un sentire condiviso la individua come lo strumento necessario per perseguire i colpevoli, in tempi ragionevoli, con pene certe e, così, dissuadere a farlo chi volesse violare la legge. Evidentemente quel sentimento, se pure c'è mai stato, non alberga più nel cittadino comune, che con i tribunali, però, non ha mai avuto a che fare.
Chissà quale sarebbe stato l'esito del sondaggio, se quelle stesse domande fossero state poste, invece, ad un campione mirato di operatori e utenti che con la giustizia e chi la gestisce hanno a che fare direttamente: è presumibile ancor meno favorevole per i magistrati, ma anche per motivi diversi da quelli che il sondaggio ha individuato, dalla discutibilità delle sentenze, alla politicizzazione e alla corruzione della magistratura, da un lato, e alla sua costante denigrazione, dall'altro.

Chi frequenta le aule ogni giorno e assiste imputati e parti civili, spesso coglie nei loro occhi dubbi e paure che non riesce a dissipare; e non solo per l'esito del processo, per sua natura spesso incerto, ma per il tempo che è inesorabilmente passato, per riti spesso incomprensibili ma, soprattutto, perché non si fidano più di loro. E "loro" sono i giudici, le cui decisioni a volte risultano difficili da spiegare, ma assai più spesso i pubblici ministeri, coloro che gettano le basi per il processo che verrà.

Invece di discutere fino allo sfinimento di intercettazioni o prescrizione - tema questo che è già una resa, perché dà per scontati i tempi troppo lunghi della giustizia - bisognerebbe convincerli che la legge è davvero uguale per tutti, come leggono in qualunque aula entrino; e che il processo è giusto, come stabilisce l'articolo 111 della Costituzione, con l'uso di un aggettivo, "giusto" appunto, che suonerebbe pleonastico, se non ci fossero anche processi ingiusti.
Bisognerebbe convincerli con i fatti che il pubblico ministero, pur essendo una parte, raccoglie elementi di prova a carico, ma anche a favore dell'indagato; e che, quale che sia il suo censo e la sua appartenenza politica, lo porterà al processo e lo farà sempre e solo se quegli elementi lo rendono necessario e non perché è convinto che sia colpevole, al di là degli indizi.

Bisognerebbe convincerli, poi e sempre con i fatti, che il giudice che se ne occupa valuterà tutte le prove raccolte; che, chiunque sia l'imputato, pure se ricco o potente, lo condannerà, ma solo se risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio; e che lo farà, quale che sia l'impatto mediatico della decisione adottata; e assolverà tutti gli altri, così che l'eventuale riforma della sua sentenza appaia e sia davvero da ricondursi a errori fatti in buona fede e non sia, come spesso sembra, un modo per ovviare a decisioni impopolari o sgradite a chi conta.

Non sarà facile convincerli se, oltre alle storture e ai ritardi, nel silenzio assordante di chi dovrebbe parlare, scoprono che alcuni di "loro" - non pochi - hanno a cuore la carriera assai più del decoro, rispondono alle correnti assai più di quanto non facciano alla legge, nutrono fra loro forti simpatie e assai più severe antipatie, circostanze tutte che possono compromettere seriamente la loro imparzialità e condizionare assai più del denaro - che pure ogni tanto accettano - le decisioni più importanti.

E sentono anche che, quando si tratta di "loro", non è sempre chiaro, come accade per i comuni mortali, se quel che hanno fatto sia o meno un reato, grazie ad un cavillo o ad un'interpretazione benevola della legge che appare così non sempre uguale per tutti. E se si vuole fermare un processo che appare ormai inarrestabile, con il crollo di miti ed eroi, bisogna far presto, perché la spirale che sta avvolgendo la giustizia non diventi irreversibile.

(dal Corriere della Sera - 19 maggio 2021)

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