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Politica e spettacolo. Da Grillo a Fedez

di Carlo Galli

Politica e spettacolo, politica e rappresentazione, politica e comunicazione, vanno insieme da sempre. Legati in un rapporto in cui emergono due ruoli.
Uno è quello della politica che dà spettacolo, che comunica, esibisce e incrementa il proprio potere. I monumenti, che ricordano e che ammoniscono - dalle piramidi alle regge barocche ai palazzi granitici del totalitarismo, e oltre - sono appunto questo.
L'altro ruolo consiste nel fatto che lo spettacolo e la comunicazione a volte fanno propaganda per il potere, ma altre volte, non senza rischi, fanno politica, criticando e mostrando che un mondo diverso è pensabile e dicibile.

In realtà, da decenni i confini fra queste due modalità di quel rapporto sono sempre più incerte e sfrangiate.
La società dello spettacolo e la politica come spettacolo si fondono e si confondono con un effetto totalizzante. Sembra che tutta la realtà si smaterializzi, e divenga rappresentazione, narrazione. Che per esistere si debba apparire, essere un personaggio. Che un gesto, un simbolo, un'emozione, prendano il posto dell'azione, siano essi stessi l'azione. Che il segno, o la performance, siano la struttura primaria del reale. Che lo spazio pubblico sia solo un palcoscenico.

La convergenza di politica e spettacolo è a tutto vantaggio di questo. Mentre i politici si sforzano di essere soprattutto comunicatori, l'uomo di spettacolo - che sa comunicare meglio di ogni altro - ha di fatto il potere di influire sull'agenda pubblica, e di mettere in ombra i declinanti protagonisti della politica, i partiti e le istituzioni, le loro funzioni, i loro riti, le loro forme.
La rappresentazione si impone sulla rappresentanza.
L'uomo di spettacolo fa politica tanto più efficacemente quanto più inefficacemente il politico rappresenta. E quindi i grandi conflitti politici in ambito religioso, o ideologico, sono divenuti conflitti di segni, su segni e simboli - su statue e opere letterarie, ad esempio.
Le identità sono lì, i valori sono lì; la realtà è tutta lì. E di conseguenza non esistono segni innocenti; i segni sono politici, sono la politica.
Il “politicamente corretto” si nutre della consapevolezza che il potere, e il contro-potere, sta nei segni.

Nel nostro Paese abbiamo recentemente sperimentato su larga scala la potenza politica degli uomini di spettacolo, da Grillo a Fedez. Eppure fra politica e spettacolo restano distanze almeno tanto rimarchevoli quanto sono imponenti le convergenze.
In primo luogo, c'è una differenza nella riconoscibilità e nella responsabilità dei protagonisti: l'uomo di spettacolo risponde, giustamente, solo a se stesso; dopo tutto, nonostante la funzione politica della sua rappresentazione, resta un privato che parla a una moltitudine di spettatori. La sua efficacia è enorme, ma emozionale, effimera, contingente.
Dall'uomo politico, invece, ci si attenderebbe una rappresentanza durevole, una coerente capacità di produrre forme e azioni, nella dimensione pubblica della cittadinanza.

Ma soprattutto c'è un limite oggettivo a questa convergenza: lo spettacolo e la politica non coincidono del tutto. Il reale non è spettacolare. Vi sono spazi, ambiti, processi che sfuggono alla rappresentazione; vi sono funzioni, poteri, interessi, conflitti, che la rappresentazione evita.
Se si vuole vedere sexual harassment nel bacio che il principe dà a Biancaneve (sulla base del principio che tutto è segno, e che nessun segno è innocente), se molti sono i temi che dalla spettacolarizzazione hanno davvero tratto vantaggio, perché sono stati giustamente portati alla luce della ribalta, oggi lo spazio più proprio della politica è da ritrovare dove lo spettacolo, per sua natura, non arriva. Nell'oscurità non illuminata dalle luci della ribalta, nei temi sgradevoli, sgraditi, che non si prestano a slogan, che non attraggono applausi, che esistono senza apparire, che restano nell'ombra come falle della nostra convivenza civile, come fallimenti dello Stato: le morti sul lavoro, i poteri distorti che corrodono le istituzioni più delicate, le ingiustizie e le disuguaglianze che lo spettacolo non rappresenta (non ne ha il dovere) ma di cui devono farsi carico la rappresentanza, le istituzioni democratiche, i partiti - insieme a quel presidio della democrazia che sono i mezzi di comunicazione capaci di analisi e di critica.
Insomma, la politica; il cui compito sarebbe non di gareggiare in simpatia o in popolarità con gli attori, ma di agire.

Lo spazio c'è; se, al di là delle lamentele, i politici vogliono veramente riprendersi il ruolo che hanno ceduto ai divi dello spettacolo.

(da La Repubblica - 8 maggio 2021)

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