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la svolta in tre fasi

 

di Francesco Giavazzi

 

A fine anno, per effetto del Covid, avremo perso l'11 per cento circa del nostro reddito. L'anno prossimo ci sarà un rimbalzo, ma la Banca d'Italia prevede che torneremo al livello pre-pandemia solo fra tre anni, alla fine del 2023. Solo allora dovremmo riprendere il nostro lento sentiero di crescita pre-Covid: pochi decimali di Pil in più all'anno.

Tradotto in numeri più comprensibili, questo significa, per il prossimo anno, un aumento di due punti del tasso di disoccupazione:

dal 10 al 12 per cento. Significa più famiglie sotto la soglia della povertà

e più diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Purtroppo nei prossimi tre anni le code davanti alle mense dei poveri saranno sempre più fitte.

Nel 2020 molte famiglie hanno fatto ricorso ai loro risparmi, ma questi a un certo punto finiranno. Tante piccole imprese hanno fatto salti mortali

per non chiudere, ma non resisteranno altri tre anni. In parte sono

stati compensati dallo Stato facendo crescere il deficit dei conti pubblici da 30 a oltre 180 miliardi di euro, un aumento di cui si è fatta interamente carico

la Banca centrale europea, acquistando quest'anno

225 miliardi di titoli pubblici italiani.

Per qualche tempo un Paese può far fronte a perdite di reddito stampando moneta, ma questa possibilità prima o poi si esaurisce. La lettera inviata due giorni fa al ministro Gualtieri da un membro del comitato esecutivo della Bce esprime un'opinione personale che non coinvolge il Consiglio direttivo della banca, ma è segno di una contrarietà evidentemente sentita a Francoforte. Certo, fra un anno ci saranno i 209 miliardi della Commissione Europea, ma si tratta di risorse una tantum, non ripetibili; anche ipotizzando di poterle usare tutte subito, sarebbero sufficienti per un solo anno.

Anche immaginando che le amministrazioni pubbliche riescano rapidamente ad accelerare gli investimenti non sarà certo qualche ponte in più a far sì che il tasso di crescita fletta. Certo, alcune infrastrutture, come fu il caso del Passante di Mestre, eliminano colli di bottiglia e contribuiscono alla crescita. Ma quanti Passanti di Mestre rimangono da fare in Italia? E quanto tempo impiegheranno le amministrazioni a realizzarli?

Occorre una svolta che parta dall'osservazione che la crescita si accompagna a tre condizioni.

   Innanzitutto dobbiamo far fronte alla caduta della popolazione in età lavorativa: entro il 2032 il numero di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni diminuirà del 6 per cento. Come ha osservato il Governatore della Banca d'Italia nella sua ultima Relazione annuale, "il calo proseguirà, accentuandosi, nei decenni successivi, e alla contrazione della popolazione in età da lavoro si assocerà il progressivo aumento della sua età media". Senza lavoro non si cresce. Oltre che da un riassorbimento della disoccupazione, queste tendenze vanno contrastate con politiche immigratorie lungimiranti e con l' allungamento della vita lavorativa.

   In secondo luogo la produttività. Scrive sempre il Governatore Visco: "Per riportare il tasso medio di espansione del Pil all'1,5 per cento registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria del 2008, nel prossimo decennio la produttività del lavoro dovrebbe crescere di circa lo 0,8 per cento l'anno", cioè dovrebbe raddoppiare.

Che cosa freni da anni la produttività della nostra economia è una questione annosa. Il primo punto è distinguere fra imprese grandi e piccole e fra imprese private e amministrazioni pubbliche. La produttività delle nostre imprese private medio-grandi, soprattutto nel settore manifatturiero, è comparabile, se non superiore, ai livelli delle analoghe imprese tedesche e francesi. La produttività è bassa nelle imprese troppo piccole e nel settore pubblico. Uno dei motivi, secondo le ricerche di Fabiano Schivardi della Luiss e Tom Schmitz della Bocconi, sono gli incentivi dei manager. Il modello famiglia-banca chiuso ad apporti di capitale e di competenze esterne frena la produttività di aziende private troppo piccole. Qui Industria 4.0 aiuta poiché consente di aggirare la dimensione dell'impresa trasferendo alcune funzioni, ad esempio il controllo di qualità, a valle, ai propri clienti. Nelle imprese pubbliche la produttività è frenata dalla politica che distorce gli incentivi dei manager. L'illusione, che da qualche anno ha ricominciato a diffondersi, che lo "Stato imprenditore" possa aiutare l'efficienza della nostra economia è una delle idee più pericolose in circolazione.

Ma il "pubblico" non include solo le imprese di proprietà di amministrazioni pubbliche. Alla nostra produttività del lavoro contribuiscono anche i 3,5 milioni di dipendenti pubblici, alcuni dei quali da mesi in smart working a casa e in parte pronti a scioperare perché l'aumento medio di 100 euro lordi al mese previsto dalla Legge di bilancio non basta.

   Infine la scuola, perché produttività significa capitale umano prima ancora che capitale fisico. Ci sono ragazze e ragazzi che da dieci mesi non tornano a scuola e ora temono che le aule non riaprano neppure dopo l'Epifania. Proprio da qui bisognerebbe ripartire, destinando le risorse europee (che non a caso hanno il nome di Next Generation EU) in primo luogo alla scuola. Magari con il progetto che da alcuni anni con ostinazione promuovo, prima con Alberto Alesina, ora, in modo molto meno efficace, da solo. Scuole aperte tutto il giorno e gran parte dei giorni dell'anno così che diventino "la casa degli studenti".

 

(dal Corriere della Sera – 20 dicembre 2020)

 

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