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Introduzione

Ai lettori di Fucinaidee è ben nota la mia valutazione sull'attuale presidente del Consiglio, sulla sua compagine di governo e sulla maggioranza che la sostiene.
Quanto prima l'"Avvocato del popolo" rientra nel "popolo degli avvocati", meglio sarà per il nostro Paese. Ma, sfortunatamente per noi, non è solo e tanto un problema di un avvocato che, per uno strano incidente della storia, si è trovato catapultato nel ruolo di Capo del governo di un paese pur sempre importante, e molto complicato da gestire. Il vero incidente della storia va ricercato nella circostanza che, di fronte ad una situazione già complicatissima, ovviamente resa drammatyica dall'emergenza Covid, a guidare il Paese ci sia questa classe politica: intendo quindi maggioranza ed opposizione, entrambe guidate dagli interessi (o presunti tali) elettorali, deltutto incapace di immaginare un progetto di ampio orizzonte per il Paese. Grave limite sempre, drammatico in questo straordinario momento, in cui andrà ripensato e ricostruito il tessuto complessivo del sistema Italia.
Come ci ricorda anche il Censis nell'ultimo suo rapporto sulla società italiana, la storia si muove in modo non lineare, e per noi ha deciso di imboccare un sentiero tortuoso. Non si capisce il perché, nell'inperscrutabile luogo dove si decidono i destini degli individui e dei popoli, sembra proprio che non ci vogliano più tanto bene...

Tornando con i piedi sulla terra, come traspare da vari segnali, di Conte vorrebbero sbarazzarsi un po' tutti: il Pd e Italia Viva, perché non possono ovviamente accettare la sua arroganza e smisurata bramosìa di potere; i grillini perché non ne riconoscono più l'ortodossia con il loro "credo politico" e perché si muove sostanzialmente in proprio; le opposizioni neanche a dirlo.
Ma un attimo dopo aver ipotizzato il benservito, ecco che tutto si fa tremendamente ingarbugliato.

Se non ci fosse stata la tremenda emergenza Covid, il Governo Conte sarebbe già saltato; il Covid è il migliore alleato di Conte. Infatti, al di là del consueto bla-bla, nessuno ha voglia di assumersi in prima persona la responsabilità della gestione di questa crisi, sapendo che - anche nel migliore dei casi in cui possa evolversi - lascierà tanti cocci da rimettere assieme. Quando - speriamo presto - tutto sarà alle nostre spalle, è facile prevedere che a Conte saranno imputate tutte le colpe, magari anche esagerando, e che lo scettro passerà ad altri.

Ma al momento Conte è in una botte di ferro, al di là dell'apparenza; ecco il perché.
Occorre fare una premessa: il Presidente Mattarella ha lasciato chiaramente intendere che se casca il governo si andrà allo scioglimento delle Camere. Prospettiva che non piace a nessuno.
Ma andiamo per ordine partendo dalla maggioranza.
Il Pd si toglierebbe volentieri Conte dai Piedi, ma ha una paura matta di una crisi che si risolverebbe in uno scioglimento delle Camere. Nel 2022 si voterà per il Presidente della Repubblica, e non si può certo correre il rischio di far gestire questo fondamentale appuntamento a Salvini e alla Meloni.
D'altro canto i grillini, il cui idillio con Conte non è certo più così impetuoso, fortemente ridimensionati nelle ultime tornate elettorali, non gradiscono certo uno sbocco che potrebbe portarli sull'orlo dell'irrilevanza parlamentare.
C'è poi Renzi con la sua pattuglia di Italia Viva, che minaccia di tanto in tanto la rottura senza mai farla veramente, perché ora può sì tenere sulla corda Conte con il suo peso interdittivo, ma se la rompesse sa che anche per lui potrebbero aprirsi scenari non lusinghieri.

Entrando ora nel campo delle opposizioni, Berlusconi non può certo permettersi il lusso delle elezioni, sapendo che gli sarebbe riservato un ruolo marginale rispetto agli altri due competitor del campo, ovvero Salvini e la Meloni. Pur sembrandomi in piena confusione, credo che sia consapevole della necessità di riorganizzare le fila, e per questo ha bisogno del necessario tempo.
Tirando le somme, gli unici che hanno veramente interesse alla caduta di Conte ed al conseguente scioglimento delle Camere, sono la Lega e Fratelli d'Italia, che non hanno la forza per provocarla.

Ecco perché Conte può tentare i suoi azzardi cesaristi.

Paolo Razzuoli

Super poteri e regole sospese L'azzardo cesarista di Conte

di flavia perina

E alla fine anche Giuseppe Conte il mite, quello che nel 2019 si presentò in Parlamento giurando che l'efficacia del nuovo governo non si sarebbe misurata con l'arroganza, va a sbattere contro un mal calcolato atto di forza. Come Matteo Renzi sul referendum costituzionale. Come Matteo Salvini sui pieni poteri. Anzi di più, perché l'idea di affidare il gigantesco sforzo del Recovery Plan a un areopago di manager, concedendogli addirittura un'autorità sostitutiva rispetto alle ordinarie catene di decisione e comando, è una sfida di qualità superiore a ogni precedente strappo, a ogni storico trascorso italiano in materia di emergenze.

Deve essere un virus, una specifica malattia della politica italiana, legata a un'interpretazione eroica e taumaturgica della leadership: il capo come un re guaritore, che impone le mani e cambia le vite dei singoli e i destini della nazione con un gesto.
Gli ultimi premier o quasi-premier ci sono cascati tutti, e tutti hanno visto coincidere il massimo del loro potere e della loro popolarità con quel gesto, l'errore fatale e potenzialmente irrimediabile che ne ha minato il consenso e rovesciato le fortune.
Almeno in teoria, l'attuale governo avrebbe dovuto essere vaccinato dalla tentazione. E' un'alleanza tra due schieramenti in apparenza estranei ai culti cesaristi. Il M5S è addirittura il mondo dell'"Uno Vale Uno", un movimento che fino a poco fa cullava l'antica suggestione leninista delle cuoche al potere. Il Pd eredita una tradizione di rigorosa osservanza costituzionale e democratica. Conte è un premier senza partito, quindi senza esercito. Inventarsi Napoleone sembrava davvero fuori dalla sua portata e dal suo orizzonte.

Strattone dopo strattone, invece, la narrazione originaria dell'esecutivo - una casa di vetro dove ogni decisione sarebbe stata presa "nelle sedi istituzionali, nelle aule parlamentari", come promesso all'insediamento - si è trasformata in qualcosa di molto diverso.
L'epidemia, certo, richiedeva un surplus straordinario di decisionismo. Ma l'escalation delle mosse accentratrici - talvolta piuttosto opache - risulta comunque impressionante e discutibile.
Lo stato di emergenza, proclamato nel febbraio in corso e costantemente prorogato a ogni scadenza. La prassi dei Dpcm, scritti tendenzialmente a tarda notte, talvolta a ridosso dell'entrata in vigore dei provvedimenti. La trasformazione di molte comunicazioni alle Camere in semplici informative per evitare il voto dell'aula. La sostanziale sospensione, per mesi, del diritto costituzionale all'istruzione. Il braccio di ferro con le Regioni, che sono in massima parte governate dall'opposizione, conseguente al rifiuto di ricercare un clima unitario a livello nazionale. La cybersicurezza del Paese affidata a una fondazione. E infine la task force per gestire i fondi europei - quindi la ricostruzione italiana del prossimo decennio - con sei manager e un centinaio di consulenti ancora senza volto e una suddivisione dei fondi che spunta all'improvviso, lasciando allibiti molti della stessa maggioranza.

Chi mai, nella storia italiana, avrebbe potuto permettersi una serie così notevole di rupture delle regole ordinarie? Non viene in mente nessuno.
D'altra parte nessuno aveva mai avuto a disposizione il tipo di libertà di azione che la pandemia ha consegnato a Palazzo Chigi, qualcosa di qualitativamente superiore a ogni stato d'eccezione vissuto in precedenza dal Paese. "La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini", annotava nelle sue memorie Francesco Cossiga, uno che di leggi speciali se ne intendeva. Ed è facile immaginare come la massima insicurezza degli italiani - migliaia di morti, decine di migliaia di ricoverati, centinaia di migliaia di potenziali disoccupati - abbia nutrito un eccesso di sicurezza del potere, la sensazione di potersi spingere senza vincoli oltre le consuete regole del gioco.

Se il calcolo è stato questo, è risultato esagerato. Come molti precedenti azzardi dei nostri leader-eroi, sta provocando crisi di rigetto non solo nella maggioranza - dove la tempesta renziana è solo la parte più visibile del dissenso - ma anche nel Paese.
L'ultimo sondaggio sul governo dice che solo un terzo degli italiani, il 34 per cento, sarebbe contento di andare avanti così mentre il 49 per cento, una quota assai vicina alla maggioranza, chiede discontinuità: con un rimpasto, con un governo di unità nazionale o attraverso nuove elezioni (la percentuale più alta, il 29 per cento).
Sono numeri che, se confrontati con il consenso plebiscitario raccolto da Giuseppe Conte nella prima fase dell'epidemia, raccontano molte cose sullo stato d'animo della Repubblica, dove la stanchezza e la sfiducia hanno da tempo sostituito la sensazione di vivere un grande romanzo collettivo, durissimo ma in qualche modo esaltante.

All'inizio del disastro, in marzo o in aprile, forse gli italiani avrebbero applaudito anche la task-force del Recovery Plan, il potenziale commissariamento dei ministeri, la cessione di quote di potere a manager mai eletti da nessuno da parte di un premier mai eletto da nessuno, e qualsiasi altra scorciatoia collegata allo slogan dell'epoca: quel "Ce la faremo" colorato che imbandierava ogni balcone.
Oggi, invece, scopriamo che l'antica regola di Cossiga ha un suo limite, un confine oltre il quale paura e potere si dissociano. Una non nutre più l'altro. E la narrazione del leader-eroe diventa meno convincente, appassisce, o addirittura viene sostituita dalla ricerca di possibili alternative.

(da La Stampa - 9 dicembre 2020)

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