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Flick: «La magistratura è in crisi perché ha perso il senso del suo ruolo, non per colpa di Palamara»

 

Di Giulia Merlo

 

•  «La crisi della giustizia e quella della politica si somigliano, la pandemia ne ha solo mostrato tutte le contraddizioni. Basti pensare all’Anm, che

non riesce nemmeno a eleggere il suo presidente o al Csm che discute del pensionamento di Davigo».

•  «L’errore metodologico della magistratura è stato di identificare la corruzione con la criminalità organizzata. Questo ha portato i giudici ad assumersi

il compito non solo di giudicare episodi di corruzione, ma il malcostume in generale».

•  «Leggo con perplessità la decisione della Consulta sul carcere. Sembrano aver ripreso forza le linee teorizzate dalle procure antimafia: scaricare sull’imputato

il ritardo della giustizia e lo scetticismo sulla risocializzazione dei detenuti». 

 

 

«La giustizia è in crisi da tempo, come lo è la politica. La pandemia ne ha solo mostrato tutte le contraddizioni» è la sintesi di Giovanni Maria Flick,

che nella sua lunga carriera ha conosciuto bene i palazzi del potere: magistrato dal 1965 al 1975, poi professore di diritto penale e avvocato, ministro

della Giustizia dal 1996 al 1998 con il governo Prodi, giudice e poi presidente della Corte costituzionale dal 2000 al 2009.

 

La crisi della giustizia e quella della politica sono collegate?

 

Di sicuro si somigliano. Guardi al profondo disagio che si sta manifestando in queste settimane nella magistratura. Come la politica è frammentata in mille

rivoli, così lo è anche la magistratura, che sta dando uno spettacolo penoso di sè con questa

incapacità di eleggere il presidente

dell’Associazione nazionale magistrati. Per anni il potere giudiziario è stato capace di compattarsi e porsi come alternativa alle carenze della politica,

ora invece sembra perso e tutto ripiegato su se stesso.

 

Cosa ha provocato questo stallo nella magistratura?

 

E’ stata una lenta discesa. Per molto tempo, soprattutto dopo Tangentopoli, la magistratura ha interpretato il proprio ruolo come una sorta di controcanto

alle patologie della politica. Esisteva un’unitarietà di fondo tra i magistrati, con un’identificazione con il potere giudiziario che superava tutte le

liti e i contrasti interni. Sotto la patina dell’orgoglio, esteriorizzato con il costante richiamo a figure di prestigio come Giovanni Falcone e Paolo

Borsellino, ha covato invece la frantumazione correntizia, che si è trasformata in autoreferenzialità e in protagonismo.

 

Concretamente, a cosa si riferisce?

 

Al fatto che la magistratura sta perdendo i contatti con i bisogni di giustizia del paese o li interpreta a modo suo. Anzi, delle varie correnti. Disperde

il senso del suo ruolo istituzionale e il patrimonio – già assai forte – della sua affidabilità; si pensi al dibattito sulla riforma del Consiglio superiore

della magistratura. Un caso emblematico di questa autoreferenzialità è stato  il

 dibattito lunare sul pensionamento di Piercamillo Davigo

 dal Csm, come se ci fosse davvero bisogno di chiedersi - e dividersi - se un magistrato in pensione possa ancora rappresentare in esso la categoria.

 

La crisi della magistratura non è cominciata, quindi, con il caso Palamara?

 

Quello è stato solo l’esteriorizzazione della crisi. Anzi,  

il caso Palamara

e la sua conclusione sono stati anche il risultato di un certo metodo di fare inquisizione: la ricerca di un capro espiatorio, quindi della mela marcia;

con lo strumento del cavallo di Troia – ovvero il virus spia usato per intercettare -, in modo da fare pesca a strascico.

 

E quindi quando è cominciata questa crisi della magistratura?

 

Potrei dirle che è avvenuto con Tangentopoli o forse anche prima, con un certo modo di fare lotta alla mafia abbandonando le linee guida di Giovanni Falcone,

ma non sarei preciso. Il punto non è temporale ma metodologico. La crisi è cominciata quando la magistratura si è illusa di prendere il posto della politica,

nel momento in cui ha smesso di esaminare le responsabilità di fatti e persone ed è passata all’esame dei fenomeni.

 

Con quali conseguenze?

 

Una giustizia che funzioni – come ci ricorda l’Europa – richiede una ragionevole durata del processo, con equilibrio tra l’efficienza e le garanzie difensive;

ed una ragionevole prevedibilità del suo esito, con risorse non solo economiche e strumenti idonei per la sua organizzazione e svolgimento. La nostra giustizia

non risponde a nessuna delle due esigenze. Non risponde alla prevedibilità: si pensi  al cosiddetto multilevel delle fonti; alla dilatazione dell’interpretazione-creazione

delle norme, grazie anche alla loro poca chiarezza; al caos delle fonti, tra ipocriti decreti-legge e il caleidoscopio dei famigerati Dpcm nei tempi della

pandemia, in uno scontro perenne tra Stato e Regioni. Non risponde alla durata: si pensi alla disorganizzazione degli uffici e del personale (anche magistrati);

ai tempi morti di giacenza dei fascicoli negli armadi; all’eccesso di burocrazia; alla loro incidenza sulla prescrizione. Forse anche per questo il dialogo

fra giustizia e politica è diventato soltanto più uno scontro fra poteri, principi e ideologie anziché un confronto sui problemi anche organizzativi e

di sistema.

 

La fattispecie penale ha perso rilevanza?

 

La magistratura, sostenuta dai media, ha iniziato a commettere l’errore metodologico di identificare la corruzione con la criminalità organizzata. Sono

invece due realtà criminali molto diverse, anche se si sorreggono a vicenda: la criminalità è violenza e intimidazione, la corruzione è accordo. Identificare

le due cose ha portato la magistratura ad assumersi il compito non solo di giudicare episodi di corruzione, ma di giudicare il malcostume in generale.

Un compito, questo, che non poteva prendersi perché esula dal ruolo, forse anche dalle capacità della magistratura e per il quale essa ha dimostrato di

non essere del tutto credibile. Sta forse dando esempio di buon costume nei rapporti fra colleghi e uffici giudiziari, più di quanto ne diano le università,

le imprese, le pubbliche amministrazioni spesso sottoposte alle ricordate “indagini a strascico”?

 

Questa crisi sta evidenziando tutto ciò che non funziona in quella che lei

nel suo ultimo libro definisce una «giustizia in crisi salvo intese».

 

La giustizia “salvo intese” è quella attuale, in cui non si muove nulla perché in realtà le intese non ci sono. La panpenalizzazione ci ha dato l’illusione

della sicurezza e così ha fatto anche l’accanirsi contro i detenuti in carcere. Ma anche la sicurezza del carcere è solo apparenza, a meno che non si travolga

davvero la Costituzione e si butti la chiave (come qualcuno, anche a livello istituzionale e soprattutto mediatico, continua a ripetere ed è tentato di

fare). La pandemia ci ha dimostrato che la pena del carcere, nel modo in cui viene eseguita, è privazione della dignità. Dovremmo avere il coraggio di

trovare altri tipi di sanzioni, per tutti  i casi, salvo quelli in cui la pericolosità sociale traducendosi in aggressività  imponga l’isolamento.

 

La Corte costituzionale si è espressa su questo, stabilendo che il decreto “Antiscarcerazioni” non lede il diritto alla salute del detenuto.

 

Non entro nel merito della decisione della Corte, di cui ho grande rispetto. Mi limito a constatare che la Consulta aveva aiutato ad aprire uno spiraglio

sul carcere, grazie alla sua giurisprudenza e alle visite dei giudici costituzionali negli istituti penitenziari. Per questo leggo con perplessità questa

decisione, ed un’altra recente sulla

sospensione della prescrizione

 nell’ipotesi in cui non si possa celebrare l’udienza a causa della pandemia, in attesa di leggere la motivazione della seconda sentenza.  Sembrano aver

ripreso forza le linee teorizzate dalle procure antimafia: quella che tende a scaricare sull’imputato il ritardo della giustizia e quella che ha un fondo

di scetticismo sulla risocializzazione dei detenuti. Se però il carcere perde questo tipo di finalità, allora la pena diventa incostituzionale e il diritto

sarebbe il primo a uscirne sconfitto.

 

Che alternative ci sono al carcere?

 

 Sarebbe già buona cosa che le pene alternative non rimangano lettera morta ed abbiano un carattere effettivamente afflittivo e rieducativo. La pandemia

ci obbliga a interrogarci su questo: viviamo in un’emergenza che deve limitare il contatto e la relazione umana in tutte le sue manifestazioni, ma questo

sembra non valere per coloro ai quali la privazione di libertà come pena impone obbligatoriamente il contatto con il sovraffollamento del carcere.

 

Serve una riforma?

 

Se ne discute da un anno e mezzo ed è stata annunciata come riforma epocale. L’ultima traccia risale al giugno scorso, ma il testo era un puzzle che metteva

insieme iniziative legislative passate e pii desideri futuri. L’assurdità sta nel fatto che continuiamo a guardare il dito e non la luna: la riforma della

giustizia deve valere soprattutto per il dopo emergenza, perché la pandemia finirà ma la giustizia continuerà a non funzionare.

 

Perché non si è ancora fatta?

 

Perché le riforme della giustizia non pagano in termini di consenso elettorale: sono spesso riforme dolorose e soprattutto richiedono tempi medio-lunghi

di elaborazione, poco adatti a questo modo di fare politica e alla breve durata dei governi. Ma senza riforme, il sistema si incepperà sempre di più. V’è

solo da augurarsi che quanti lavorano bene nella e per la giustizia, e non sono pochi, riescano a farsi sentire come e più degli altri.

 

(da www.editorialedomani.it – 28 novembre 2020)

 

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