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All’Italia non serve un salvatore, ma un progetto politico condiviso

 

Di Paolo Razzuoli

 

   Che in Italia le cose non vadano nel verso giusto, e che ci sia bisogno di una radicale riforma del sistema paese, in linea di principio trovano tutti d’accordo. Naturalmente le cose si presentano in modo molto diverso se si cerca di scendere nel dettaglio.

 In Italia tutti sono riformisti, purché a pagare l’eventuale costo delle riforme siano sempre gli altri.  

“Sì certo c’è un gran bisogno di riforme”, tutti sono d’accordo, ma guai a toccare i privilegi, piccoli o grandi, che ciascuno, individualmente o come gruppo sociale, nei decenni si è ritagliato.

  Se qualcuno prova a metterli in discussione, emerge il vero spirito degli italiani: quello di un popolo progressista a parole e conservatore nel più profondo dell’anima e della mente.   

“Il non parlare mai di sé è un'ipocrisia molto distinta”, ci insegna Nietzsche; ora occorre integrare, aggiungendo che è altrettanto diffusa. 

   Del resto, se dopo decenni in cui non si è fatto sostanzialmente niente, nonostante che più o meno tutti i partiti e tutti i governi abbiano posto le riforme fra i punti qualificanti dei loro programmi, qualche domanda dovremo pur porcela, e dovremo anche immaginare qualche risposta razionale.

   Ebbene, vi propongo una tesi.  

 In realtà la riforma in profondità di cui il “sistema Italia” avrebbe bisogno sinora non l’ha voluta seriamente nessuno. Al di là della facciata, non l’ha voluta l’opinione pubblica, sostanzialmente legata alla difesa di grandi o piccoli privilegi acquisiti; non l’ha voluta ovviamente la burocrazia, la cui pesantezza ed inefficienza sono sotto gli occhi di tutti, che ha sinora difeso con mani e denti situazioni di privilegio di cui non gode in nessuno dei principali paesi europei; non l’ha voluta naturalmente la politica, che mai avrebbe trovato il coraggio di misurarsi con un’impresa così impegnativa e che, anzi, della difesa dei vari interessi corporativi ha di sovente fatto il cavallo di battaglia per la costruzione del proprio consenso elettorale.

  Ma non vale solo per  la politica: vale per i gradi alti della burocrazia, mai seriamente chiamati a rispondere del proprio operato, vale per il pubblico impiego nel quale è stata ostacolata l’introduzione di qualsiasi criterio meritocratico, ma vale anche per molte professioni la cui sopravvivenza è legata all’ampliamento degli adempimenti burocratici. Quando siete costretti a rivolgervi ad un professionista per il disbrigo dei numerosi adempimenti, ad esempio per avviare un’azienda o ristrutturare una casa, quando vi dà ragione se vi lamentate per gli appesantimenti burocratici non lo credete: sono proprio questi appesantimenti che gli portano una parte rilevante del proprio reddito. Non credo sia fuori luogo quindi affermare che l’abnorme mole di adempimenti a cui sono costretti i cittadini italiani, ha la sua origine in una surrettizia (ancorché mai dichiarata) finalità di redistribuzione del reddito, oppure nella volontà della politica di ampliare la propria sfera di controllo della società.

    Insomma, direi che gli squilli riformatori rispondano al solito gioco ipocrita per cui tutti vogliono cambiare tutto affinché tutto rimanga come prima.

   I lettori vorranno scusarmi se forse ho indugiato un po’ troppo su questo tema, ma penso che sia il vero nodo della questione. La società italiana ha in questi decenni trovato un equilibrio che più o meno ha funzionato, non tanto sulla base di un progetto organico di assetto sociale e politico, quanto sulla base della soddisfazione di spinte corporative più o meno forti e più o meno meritevoli di tutela.

  Un equilibrio certo assai costoso, sia in termini finanziari che di efficienza complessiva del sistema, che è stato sinora pagato su un versante con l’aumento del debito, e sull’altro con una perdita di efficienza e competitività del sistema che hanno bloccato lo sviluppo del Paese ormai da decenni.

  Una certa capacità affabulatoria dei nostri politici e, soprattutto, la posizione strategica che l’Italia ha in Europa e nello scacchiere atlantico, ci hanno consentito di avere le necessarie coperture di natura internazionale.

   Ma se sinora in qualche modo siamo riusciti a cavarcela, appare difficile immaginare che senza un progetto strategico di sviluppo il Paese possa attrezzarsi per uscire dalla crisi innestata dal Covid-19. La drammaticità e complessità della situazione non possono certo essere affrontate con i consueti strumenti dell’ordinarietà. La straordinarietà del contesto richiede uno sforzo nuovo, il cui binario non può che essere cercato in un nuovo progetto di “sistema paese”, in cui vengano disegnati su basi nuove gli equilibri costituenti l’assetto sociale complessivo.

  E con la consueta ipocrisia, a parole dovrebbe sussistere una grande condivisione di questi nuovi equilibri: alta qualità della politica, chiara definizione delle competenze dei vari livelli di governo al fine di evitare i consueti balletti di scaricabarile e/o veti o conflitti di potere, ridimensionamento ed efficientamento della burocrazia, introduzione di criteri meritocratici nella Pubblica Amministrazione, riforma della Giustizia civile, penale e amministrativa (non vanno sottovalutati i paradossali comportamenti dei TAR), riforma fiscale nella direzione di allentare la pressione sul costo del lavoro, investimento sulla formazione, drastica semplificazione burocratica e ripensamento del suo rapporto con i cittadini e via dicendo.

  Ma il tema vero è questo: fare il salto, da una condivisione ipocrita ad una condivisione autentica. Insomma, fare di queste linee i pilastri di un progetto politico condiviso.

Condiviso ovviamente dalla società e dalla politica. Dalla società, che dovrà compiere un processo di maturazione che la porti a superare la logica del frazionamento corporativo in favore della condivisione di un progetto di assieme; dalla politica, che dovrà sottrarsi dalla logica dei dividendi elettorali immediati, in favore dell’impegno per un progetto di orizzonti ampi. Una politica che, come ci insegna DeGasperi, “sappia guardare alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni”.

    Dopo la fine della cosiddetta “prima repubblica”, nell’opinione pubblica italiana si è fatta strada l’illusione che un leader potesse affrontare e risolvere i problemi irrisolti del paese. Una tendenza fotografata anche nel rapporto Censis sulla società italiana del 2019, in cui veniva appunto evidenziata l’alta percentuale di italiani disponibili verso una leaderscip forte. 

  Va detto, ad onor del vero, che questa tendenza è stata contraddetta dal fallimento dei vari tentativi di riforma, finalizzati al rafforzamento di una democrazia governante.

   Ma al di là di questa considerazione, peraltro non certo marginale, questa speranza in un leader quasi dotato di poteri demiurgici è la cifra interpretativa che ha giustificato la speranza riposta –tanto per citarne i più importanti - nelle figure di Berlusconi prima, poi di Monti, quindi di Renzi.

Figure che hanno avuto un consenso rapido e travolgente, e che con la stessa rapidità si è poi dissolto come neve al sole.

 Al di là delle opinioni che ciascuno si è fatto dei vari personaggi, non poteva essere che così, posto che nessun leader - nemmeno il più carismatico tenace e lungimirante - può affrontare nodi che nel contesto dato singolarmente è in grado di sciogliere.

Sì, perché nell’attuale contesto di democrazia debole e fortemente consociativa, o la politica si impegna in un progetto condiviso, oppure qualsiasi serio percorso riformatore non potrà che arenarsi nelle secche dei veti incrociati.

  In questo contesto nessuna leadership è in grado di affrontare in profondità i problemi del sistema paese, se non è sostenuto da un progetto condiviso, dalla società e dalla politica: un progetto che non può prescindere da una riassunzione di responsabilità collettiva, in cui ciascuno si impegni a fare la propria parte, prima di tutto rendendosi disponibile agli eventuali sacrifici richiesti. Una complessiva presa di coscienza dell’impegno di singoli e/o gruppi, che segnino un cambio di passo di questo Paese, che oggi sembra più un assieme di tribù che un popolo proteso verso obiettivi di sviluppo collettivo. E il dibattito surreale di questi giorni sulle misure anti-covid direi che lo attesta in modo inequivocabile.

    Ovviamente il discorso approderebbe ad altre conclusioni se si trattasse di rafforzare in senso monocratico le strutture di governo. Ma questo – che sarebbe una vera e propria involuzione in senso autoritario ed antidemocratico – ovviamente non lo vuole nessuno, quantomeno nei settori responsabili dell’opinione pubblica.

   Occorre però attenzione! Continuando a bloccare qualsiasi azione mirata a rendere la nostra democrazia autenticamente governante, si possono rafforzare pulsioni antidemocratiche che, sommandosi alla crisi, potrebbero innescare il detonatore di processi molto pericolosi.

 

    Traendo una sintesi dal ragionamento, in Italia c’è bisogno di un progetto politico condiviso e non di una illusoria speranza in un leader dotato di poteri taumaturgici.

  Quello che serve è un vero sforzo palingenetico della società italiana, che certo dovrà essere guidato da una leadership seria e lungimirante.

 Uno sforzo paragonabile, in tempi recenti, a quello che la società italiana ha saputo mettere in campo nel secondo dopoguerra. Certo allora la leadership c’era: quella di alcide De Gasperi e del gruppo che lo sosteneva. Ma se non fosse stato sostenuto da un progetto ampiamente condiviso, non avrebbe potuto sviluppare la sua opera.

  Ma è anche vero che il progetto va saputo proporre, e quella leadership sicuramente ha avuto la credibilità e la forza di farlo.

   Il discorso torna quindi alla politica, intesa in senso ampio, quindi non solo sui partiti, ma sull’intero ventaglio dei soggetti operanti nella società civile: la cultura, il sindacato, le organizzazioni professionali e così via.

   In mancanza di ciò, qualsiasi figura, anche la più rappresentativa, sarà destinata al fallimento. Potrà certo ottenere fulminii consensi, ma con altrettanto rapidità li perderà, allorché cadrà l’illusione che li aveva generati.  

  Se si riuscirà a condividere in misura sufficientemente ampia un progetto di Paese, si potrà sperare di uscire dalla drammatica crisi attuale con gambe solide e reni adatte ad affrontare lo sforzo.

  Il piano per il “Next Generation” sarà il primo banco di prova….

       Ma bisogna avere il coraggio di superare gli “interessi di bottega” e occorre il coraggio della verità.

  Agli italiani va detta la verità sui reali termini della situazione.

  Verità che la politica dribbla per non affrontare l’impopolarità.

  Tema antico, visto che Martin Lutero a suo tempo diceva: “La superstizione, l'idolatria e l'ipocrisia percepiscono ricchi compensi, mentre la verità va in giro a chiedere l'elemosina”.

 

Lucca, 26 novembre 2020

  

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