logo Fucinaidee

La politica dialoghi con le piazze

di Donatella Di Cesare

E' facile condannare la rabbia, è semplice criminalizzare il dissenso, è comodo gridare all'eversione. Perché così si liquida la faccenda.
Ma il rischio è limitarsi a fare dietrologia, a individuare chi c'è "dietro", a ipotizzare una "sapiente regia". Non è possibile ridurre le proteste di piazza a caos insensato, non è lecito fermarsi al fumo dei lacrimogeni e alle immagini convulse del disordine. Il fenomeno delle rivolte è un fenomeno politico e come tale va considerato. Chi intende ridurlo a questione di sicurezza commette un grave errore.

Le proteste esplose venerdì sera non sono una sorpresa. E c'è da supporre che siano solo l'inizio di una lunga serie. In qualche modo si è lasciato credere che tutto sarebbe presto finito. Adesso è invece chiaro che la pandemia durerà. Lo scenario è d'un tratto dei più foschi. Ma non siamo tutti sulla stessa barca.

Chi ha fatto un giro nelle periferie metropolitane sa che il disagio e la sofferenza si avvertono come mai. L'esistenza di chi è esposto, di chi non ha tutele, garanzie, diritti, è cambiata radicalmente. Il lavoro manca, le relazioni sociali si deteriorano, l'isolamento è pane quotidiano.
Per non parlare dell'angoscia del contagio, dell'inquietudine generata dal virus assassino.

A chi rivolgersi? Che fare? La pioggia dei sussidi non basta. Bisogna anche dire che il frenetico susseguirsi dei decreti, con misure magari giuste, ma spesso limitate e disorganiche, genera apprensione e smarrimento. Coprifuoco, lockdown, confinamento – tutti termini che non rassicurano. Anzi! Sappiamo che la perdita dello spazio pubblico, di cui si è impossessato il virus, ha avuto e ha ripercussioni devastanti per tutta la comunità. E, a questo proposito, siamo sicuri che sia una buona idea chiudere cinema e teatri, impedire ogni attività culturale? Non sarebbe invece necessario evitare l'oscurità militarizzata e permettere quelle iniziative che creano comunità?

Ma soprattutto l'impressione è che questo governo – il premier Conte in testa – non ascolti, non dialoghi. Chi si è assunto l'onere di governare è chiamato, in un momento così grave e complesso, al confronto aperto. Non è sufficiente qualche sporadica comparsa virtuale. La miccia della rivolta può accendersi ovunque – non solo a Napoli, non solo a Roma. Tutto il Sud è in una situazione esplosiva; ma lo stesso vale per Milano, Torino e altre città. D'altronde il fenomeno è globale – come la pandemia. Basta sollevare lo sguardo oltre i confini per vedere l'ondata di proteste che, dettate da motivi diversi, sono però legate dal filo di un enorme malessere che il coronavirus ha accentuato e portato alla ribalta.

Lo sviluppo promesso, il progresso decantato hanno lasciato indietro un mondo dove si consente l'abisso dell'ineguaglianza, il saccheggio dell'avvenire, l'arroganza spettacolarizzata di pochi di fronte all'impotenza dei molti. La rabbia che scende in piazza cerca un faccia a faccia con il potere, ormai sempre più sfuggente, ubiquo. La politica appare lontana, astratta. La piazza diventa allora il luogo di un incontro, sempre in procinto di esplodere in uno scontro.

Attenzione, dunque, a non stigmatizzare immediatamente questo tentativo; per quanto sbagliato sia, prima occorre cercare di comprenderlo.
Certo che c'è chi attizza il fuoco, ma molti sono cittadini profondamente disorientati che non riescono a riconoscere un'istanza politica a cui rivolgersi.

(da La Stampa - 26 ottobre 2020)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina