L’attuale giornata elettorale focalizza, ovviamente, l’interesse degli italiani, ponendo in secondo piano il ricordo di un evento che, centocinquant’anni or sono, è stato fondamentale per la storia dell’Italia unitaria.
Il 20 settembre del 1870, la presa di Roma fu l’episodio del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia, completando così il processo di unità nazionale e – nel contempo - decretando la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei Papi. L’anno successivo la capitale d’Italia fu trasferita da Firenze a Roma: era il 3 febbraio 1871.
L’anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino alla sua abolizione, avvenuta dopo i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929.
Il desiderio, il sogno e l’aspirazione di porre Roma, Città Eterna da oltre 26 secoli, a capitale del nuovo regno d’Italia, era già stato esplicitato in forma determinata
da Cavour, in uno storico discorso al Parlamento italiano l’11 ottobre 1860, e in uno successivo del marzo 1861, a Torino.
Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, ci furono vari tentativi diplomatici per comporre una disputa che tormentava il disegno risorgimentale,
quello di avere Roma Capitale del nuovo Regno d’Italia, ed evitare di entrare in conflitto con lo Stato Pontificio.
Come è noto, vi furono anche azioni militari, guidate da Giuseppe Garibaldi: quella del 1862, conclusasi con il drammatico scontro dell’Aspromonte, e quella del 1867, conclusasi con la sconfitta dei garibaldini a Mentana.
Ai primi di settembre del 1870, quindi alcuni giorni prima dell’attacco, tramite il conte Ponza di San Martino venne consegnata a Papa Pio IX una lettera autografa del Re Vittorio Emanuele II, ove
si esplicitava “l’indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, possano
avanzare nel vostro territorio, per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e per il mantenimento dell’ordine.”
La risposta del Papa fu molto scarna: “Maestà, mi è stata consegnata dal conte Ponza di San Martino una lettera che a V. M. piacque dirigermi; ma essa non
è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera,
per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l’ultimo periodo
della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principi che contiene. Faccio di nuovo ricorso
a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo,
renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno. Dal Vaticano, 11 settembre 1870.”
Quello stesso giorno il corpo di spedizione italiano fermo in Umbria entrò nello Stato Pontificio marciando verso Roma; si trattava di circa 65000 uomini agli ordini del generale Raffaele Cadorna, mentre l’esercito pontificio contava 13000 unità (compresi oltre 5000 volontari di vari paesi europei) comandate dal generale Hermann Kanzler.
Dopo giorni di attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre 1870, l’esercito italiano entrò a Roma attraverso
la breccia aperta a cannonate a Porta Pia.
Per i lettori di Fucinaidee propongo una breve sintesi storica dell’avvenimento.
Paolo Razzuoli
Di Matteo Carnieletto
È l'alba del 20 settembre 1870 e il sole si affaccia timidamente su Roma. Le truppe del Regio esercito italiano si sono mosse nella notte per avvicinarsi
alle mura della città eterna, ultima roccaforte di papa Pio IX. Tutti sono pronti alla guerra.
All'interno delle mura, il generale Hermann Kanzler arringa i suoi 16mila uomini: dovranno essere pronti a immolarsi per difendere "il dolce Cristo in terra",
quello che, anche se nessuno ancora lo sa, sarà l'ultimo papa re. Al di fuori delle mura, invece, i soldati italiani sono pronti a combattere affinché
la città eterna diventi la capitale d'Italia. Non più Torino, non più Firenze. La capitale del neonato Regno deve essere la città dei cesari e dei papi.
"O Roma o morte", aveva detto Giuseppe Garibaldi a Marsala il 19 luglio del 1862. Così fu.
Già a partire dall'inizio dell'estate, la città è in subbuglio. La guerra franco-prussiana ha infatti rinvigorito le spinte di coloro che, anche all'interno
dello Stato pontificio, vogliono far di Roma la capitale d'Italia. Si legge nei documenti: "Molti privati spontaneamente portavano personalmente, o partecipavano
per iscritto informazioni, come accade quando una causa è popolare; ma era difficile discernere le vere dalle false. Molte erano fantastiche e frutto di
una riscaldata immaginazione, con quale disturbo per un Quartier Generale già di molto preoccupato, è superfluo l'accennare. E quale danno poi se si fanno
le operazioni su falsi o alterati dati! E ciononostante, a tempi più tranquilli, alcuni di siffatti inventori di notizie reclamarono compensi...Essenzialmente
le informazioni positive ed utili, provenivano da ufficiali dell'esercito segretamente spediti. Fra le informazioni attendibili vi fu quella che allo scoppiare
della guerra franco-germanica ebbero piuttosto luogo parecchie liti fra tedeschi e francesi dell'esercito pontificio". Spie, vere o presunte, ovunque.
E la certezza che un attacco sarebbe prima o poi arrivato.
Il 20 di settembre, gli scontri iniziano poco dopo le cinque di mattina. Sono gli zuavi a sparare per primi, vedendo un gran numero di soldati schierati.
Uno dei primi a cadere, se non il primo, è il caporale Piazzoli, che viene colpito mentre cerca di caricare il pezzo di artiglieria che avrebbe dovuto
sparare il primo colpo. L'attacco viene così ritardato, ma solo di pochi minuti. Secondo una leggenda, è dunque il capitano Giacomo Segre, israelita, a
sparare per primo. Come mai proprio lui? In quanto ebreo non sarebbe incorso nella scomunica papale. La realtà è però diversa, come ci spiega il generale
di Brigata Fulvio Poli: "L'aneddoto che fu incaricato lui di aprire il fuoco contro le mura di Roma per evitare la scomunica papale non trova conferme
nei documenti. Segre era un eccellente artigliere di un esercito pluriconfessionale. In verità, alle 5 e 15, le artiglierie della 9^ Divisione e della
13^ aprirono il fuoco secondo quanto aveva ordinato il generale Cadorna; pochi minuti dopo, iniziarono pure quelle dell'11^ e 12^. Alle 5 e 20, aprirono
il fuoco le batterie della riserva". I documenti sono chiari e smontano la vulgata che è arrivata fino ai giorni nostri: "Al centro le batterie da posizione
della riserva e le altre due dell'11^ incominciarono a battere in breccia il tratto di cinta già stabilito e più di tutte contribuì alla rovina della muraglia
la 5^ batteria del capitano Segre per la breve distanza che la separava dal bersaglio".
Ci vogliono tre ore prima che cada il muro che difendeva il pontefice. Vengono sparati 888 colpi e, alle 8.30, viene finalmente aperta la breccia di Porta
Pia. Si alza un'intenso fumo. Odore di calce e di polvere da sparo. L'artiglieria non si ferma e continua a sparare fino alle 9.45, quando una bandiera
tricolore appare sulla torretta di Villa Patrizi. È il segnale: Roma è presa. Il muro crolla completamente, ad eccezione di una raffigurazione di Maria,
come scriverà Edmondo De Amicis, all'epoca giovane ufficiale testimone di quegli eventi: "La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna,
che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e asinistra non avevano più testa; il solo intorno era sparso di mucchi di terra; di materassi
fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti".
I soldati pontifici, infatti, non resistono più di tanto. È Pio IX stesso a ordinare, in una lettera la cui data è stata cambiata più volte, che non venga
versato sangue inutilmente. La missiva, datata inizialmente 14 o 19 settembre, venne poi modificata più volte, cambiando la frase "ai primi colpi di cannone"
con o"appena aperta una breccia" e "a qualunque spargimento di sangue" con "a un grande spargimento di sangue". A distanza di 150 anni, non sappiamo ancora
perché il Santo Padre volle assumersi la responsabilità dei caduti. Ma così fu. Come del resto si fece anche da parte italiana: la battaglia "doveva essere
morbida, non doveva dare occasioni alla comunità cattolica - più di quante non ne offra di per sé un attacco armato al capo supremo della Chiesa - di
montare uno scandalo internazionale" (Antonio di Pierro, L'ultimo giorno del Papa Re. 20 settembre 1870: la breccia di Porta Pia). I morti del resto furono
solo 48 per il regio esercito e 19 tra quello pontificio: "L'andamento delle operazioni evidenzia, da un lato, come la resistenza pontificia, per quanto
inizialmente accanita, fu poco più che simbolica e, dall’altro, dimostra la volontà italiana di non portare danno alla città e alla sua popolazione", ci
spiega il generale Poli. Si chiudeva così un'era, quella dei papa re, e se ne apriva un'altra: l'unità d'Italia era stata raggiunta. E guadagnata con il
sangue.
(da Il Giornale – 20 settembre 2020)