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SANTA CROCE DEI LUCCHESI

 

Di L.M.L.

 

 

Il 14 settembre, giorno dell’esaltazione della santa Croce, è festa grande per tutti i lucchesi, anche per quanti sono emigrati in terre lontane che, come mandano a dire ai parenti più o meno prossimi che vivono in Italia, prendono un giorno di ferie dal lavoro o chiudono i loro negozi e ristoranti per partecipare, almeno idealmente, alla loro festa, magari mangiando una fetta di buccellato.

A Lucca, il 14 settembre è anche giorno di fiera, la più importante, quella che fin dall’antichità vedeva famiglie intere di abitanti del contado, delle Seimiglia, arrivare con i “barocci” e sciamare tra i banchetti della più varia mercanzia, soprattutto quella che sarebbe servita per i lavori autunnali nei campi e come riserva di attrezzi e vestiario in vista dell’inverno, stagione in cui i viaggi in città sarebbero stati rari quanto difficoltosi. La grande festa aveva ed ha altre due appendici: la fiera di San Matteo, il 21, e l’ultima, quella di San Michele, il 29, che apre le porte alla stagione autunnale e che è definita “fiera delle carogne” in quanto, essendo l’ultima, offriva, al Foro Boario, gli animali più scalcinati che nessuno aveva voluto acquistare o prendere a baratto nelle due precedenti.

Chiusa la parentesi sulle ricorrenze settembrine a Lucca, andiamo nella nostra Corte Piagge, dove la festa di santa Croce veniva festeggiata da sempre in modo particolarmente solenne: Maria ricorda ancora con rimpianto i pranzi del 14 settembre a cui nonno Cesare e nonna Amelia invitavano tutti i figli con le rispettive famiglie: guai a mancare! Non erano ammesse scuse, né giustificazioni.

La nonna, cuoca sopraffina, si metteva in cucina alla prima luce del giorno; polli, galline e conigli li aveva  “preparati” il giorno prima, cioè gli aveva tirato il collo, e adesso ne metteva le carni frollate sul fuoco, creando quella magia di crostini, ragù ed arrosti il cui profumo si spandeva per tutta la corte.

La crosticina ed il sapore delle patate cotte nel sughetto degli arrosti sono impressi come epigrafi solenni nella mente di Maria che, ancora oggi, al ricordo si sente venire l’acquolina in bocca, con buona pace dei vegani!

Naturalmente, dalla cucina erano banditi tutti, nemmeno le figlie  potevano collaborare, magari pelando le patate: Amelia lo aveva già fatto da sola, quando ancora tutti dormivano, e le aveva messe nell’acqua fredda, perché nella cottura diventassero poi    più  croccanti. Maria però riusciva ad intrufolarsi in quel bengodi di sapori ed odori  e, “rubata” una fettina di pane, la intingeva velocemente nel sugo di cottura dei conigli e se la andava a gustare dietro il porcile, un vecchio porcile, appunto, ormai in disuso che al momento serviva solo come nascondiglio quando la ciurma di corte giocava a rimpiattino nei lunghi pomeriggi estivi.

Verso mezzogiorno, cominciavano ad arrivare gli ospiti più attesi da Maria: i cugini Francesco e Cesarino, sempre “precisi” nei loro vestiti della festa con giacchetta, cravatta e, data l’occasione, i calzoni lunghi e la loro sorella maggiore Radiana, sempre affannata ed in ritardo, già fidanzatissima, fin dall’età di 15 anni, con quello che sarebbe diventato poi il marito, compagno di vita, fedele ed innamorato fino al suo ultimo giorno. Arrivava, soprattutto, zia Ersilia, la sorella maggiore di nonno Cesare, che viveva a Nodica, nelle campagne pisane: il nipote la portava fin lì con il calesse e tutti i ragazzi di corte aspettavano con impazienza di poter vedere da vicino ed accarezzare il cavallo o, se il “cocchiere” era in vena, magari di poter salire a cassetta e simulare la guida tenendo le redini; ed il cocchiere, di solito, dopo il secondo bicchiere di vino, li avrebbe lasciati anche salire in groppa al suo Morello!

Alle 12,30, tutti a tavola e guai ai ritardatari: Cesare era tremendo sulla puntualità, si racconta che il figlio maggiore, Francesco, morto nel ’47 di una malattia contratta in guerra, si adattasse spesso a dormire nel fienile perché non c’erano santi: alle 11 di sera il padre chiudeva la porta di casa dal dentro “chi c’è c’è e chi un c’è s’arangia”; poi, la mattina successiva, arrivava anche la “mancia” di scappellotti, che Checco prendeva senza fiatare, anche dopo aver superato abbondantemente i vent’anni.

I posti a tavola non erano prestabiliti, ognuno si sedeva accanto a chi voleva, l’unica posizione obbligata era quella di Amelia che, dovendosi alzare di continuo per servire le varie portate, sedeva di necessità nella parte più prossima alla cucina.

Maria era la commensale più giovane, ma, a differenza di oggi, i bambini non comandavano anzi, dovevano aspettare il loro turno per parlare, senza interrompere i grandi, venivano serviti dopo gli adulti e non potevano alzarsi da tavola ogni minuto perché si annoiavano (ma di quanti secoli fa stiamo parlando?); nonostante ciò, la piccola viveva quella giornata come un regalo atteso da tanto tempo; in più, nel pomeriggio l’avrebbero portata ai “cavallini” sul Giannotti o, come si dice oggi, al “Luna Park” delle Tagliate, allora posizionato sui prati sottostanti le mura (senza, tra l’altro, generare gli scempi a cui gli eventi epocali, cioè qualche concerto di cantanti in andropausa, ci hanno oggi abituati!), dove una decina di giostre male in arnese, fatte girare a mano dai rispettivi proprietari, rappresentavano una “full immersion” nel mondo della fantasia: Maria si sentiva Cenerentola al ballo seduta in una carrozzella a forma di zucca che riproduceva approssimativamente quella creata dalla fata Smemorina per la sua figlioccia che doveva assolutamente andare al ballo del principe!

La sera, dopo aver ottenuto in dono un giochino di plastica acquistato da papà Achille ad uno dei banchi della fiera in piazza S.Michele, Maria andava a letto presto, anche se, allora, la scuola non era ancora iniziata: le emozioni, i cibi della nonna e i giri sulla carrozzella della giostra, riassaporati con il pensiero, la portavano dolcemente nel sogno della giornata trascorsa e nell’inizio dell’attesa di ciò che l’autunno, con le sue nebbie, i suoi colori e le sue ricorrenze, avrebbe portato di lì a poco, come se tutti i riti, le riunioni di famiglia, i pranzi dai nonni, facessero parte di un ciclo che si può ripetere all’infinito, senza togliere niente e nessuno dai nostri anni e dalle nostre feste di Santa Croce.

 

Lucca, 10 settembre 2020

 

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