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Referendum Costituzionale dei prossimi 20 e 21 settembre: parliamone

di Paolo Razzuoli

I prossimi 20 e 21 settembre, salvo sorprese, le elettrici e gli elettori del nostro Paese saranno chiamati ad esprimersi sulla conferma o meno della legge Costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. Più precisamente: la Camera dei Deputati dagli attuali 630 a 400; il Senato dagli attuali 315 a 200. Nel caso del Senato, vanno poi aggiunti i Senatori a Vita, le cui disposizioni non vengono modificate.

In queste pagine provo ad offrire qualche riflessione, non sottraendomi, al termine del percorso, dal dire quale è la mia intenzione di voto.

Anzitutto è opportuno capire perché siamo chiamati a questo referendum costituzionale.
Modificare la Costituzione italiana è possibile, ma solo attraverso un procedimento speciale fissato dall’articolo 138, che ha come oggetto le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali.
Tale articolo infatti indica il procedimento per modificare il testo della legge fondamentale o abrogarne determinate norme (leggi di revisione costituzionale) o integrarne il contenuto (leggi costituzionali). L’iniziativa legislativa per tale tipo di leggi spetta al Parlamento, al Governo, alle Regioni e al popolo. Il procedimento della loro approvazione è più complesso e articolato dell’iter previsto per leggi ordinarie. Queste le differenze rispetto alla procedura ordinaria:
a) i progetti di legge costituzionale devono essere votati non una ma due volte da ciascuna Camera, secondo il metodo dell’alternanza (Camera dei deputati – Senato – Camera dei deputati – Senato, oppure Senato – Camera dei deputati ecc.);
b) tra la prima e la seconda votazione di ciascuna Camera è richiesto un intervallo di tre mesi; le condizioni a) e b) sono richieste per garantire una riflessione ponderata, visto che si tratta di modificare o integrare la legge fondamentale dello Stato;
c) nella seconda votazione non si possono introdurre emendamenti nel testo; si vogliono con ciò evitare i compromessi dell’ultima ora, e si pretende una valutazione chiara e senza ripensamenti sulla legge nella sua interezza;
d) nella seconda votazione si richiede la maggioranza assoluta dei componenti ciascuna Camera (quindi non dei soli presenti e votanti);
e) se è approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, la legge è senz’altro promulgata; se ciò non si verifica, è solo pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e da quella data si devono attendere 3 mesi, durante i quali 1/5 dei membri di una Camera, oppure 500.000 elettori oppure 5 Consigli regionali, possono richiedere che la legge sia sottoposta a referendum popolare (referendum costituzionale); se tale richiesta non avviene, trascorsi i 3 mesi la legge è promulgata;
f) l’eventuale referendum si deve tenere con le modalità previste dalla legge 352/1970. La legge è approvata se ottiene la maggioranza dei voti validi (esclusi cioè i voti nulli e le schede bianche). Il referendum è valido qualsiasi sia il quorum dei votanti, una differenza fondamentale rispetto al referendum abrogativo.

Ebbene, si vota giacché si sono determinate le condizioni per la richiesta di referendum, che è stato richiesto nei modi previsti.
Infatti, mentre nell'ultima votazione alla Camera dei Deputati i sì alla Legge sono stati ben 553, in quelle precedenti le cose sono andate molto diversamente. Cosa è accaduto nel corso dell'iter di approvazione della Legge? Molto semplice, è intervenuto il noto cambio di maggioranza, per cui il Pd precedentemente contrario, ha votato a favore.

Vediamo nel dettaglio come sono andate le cose.
• 7 febbraio 2019: il Senato della Repubblica approva il disegno di legge in prima deliberazione con 185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astenuti;
• 9 maggio 2019: la Camera dei deputati approva il disegno di legge in prima deliberazione con 310 voti favorevoli, 107 voti contrari e 5 astenuti;
• 11 luglio 2019: il Senato della Repubblica approva il disegno di legge in seconda deliberazione con 180 voti favorevoli e 50 contrari. La maggioranza è quindi inferiore ai due terzi dei componenti richiesta dal terzo comma dell'articolo 138 della Costituzione per rendere inammissibili le richieste di referendum; • 8 ottobre 2019: la Camera dei deputati approva il disegno di legge in seconda deliberazione con 553 voti favorevoli, 14 voti contrari e 2 astenuti (maggioranza superiore ai due terzi dei componenti); • 12 ottobre 2019: la legge costituzionale viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 240. Da questo momento partono i tre mesi di tempo affinché un quinto dei membri di una Camera o 500.000 elettori o cinque Consigli regionali possano richiedere che si proceda al referendum popolare;
• 10 gennaio 2020: 71 senatori depositano presso la Corte di Cassazione la richiesta di referendum costituzionale, promossa dai senatori Tommaso Nannicini (PD), Andrea Cangini e Nazario Pagano (FI);
• 23 gennaio 2020: L'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte suprema di cassazione dichiara la richiesta di referendum conforme all'articolo 138 della Costituzione e accerta la legittimità del quesito referendario proposto.
A questo punto la palla passa al governo che deve fissare la data del referendum; viene fissato per il 29 marzo, poi rinviato per l'emergenza covid-19.
Se prevarranno i Sì, la Legge risulterà confermata; se invece prevarranno i No, la Legge non entrerà nel nostro ordinamento.

Sperando di essere riuscito a chiarire il percorso che ha portato al referendum, sposto ora il focus sul suo contenuto.
La riduzione del numero dei parlamentari non è certamente un tema nuovo. Esso infatti è stato presente nei principali tentativi di modifica costituzionale degli ultimi decenni: era previsto nella proposta di riforma del Governo Berlusconi, respinta con il referendum del 2006, era altresì prevista nella proposta del Governo Renzi, respinta con il referendum del 2016.
C'è però una differenza importante: questa volta la Legge Costituzionale riguarda esclusivamente la riduzione del numero dei parlamentari; nelle precedenti occasioni invece tale riduzione era sì prevista, ma nell'ambito di un disegno riformatore più ambizioso.

E qui si giunge al primo fondamentale nodo della questione. E' utile la riduzione del numero dei parlamentari rispetto alle debolezze della nostra architettura istituzionale? La mia risposta è deltutto negativa. La riduzione del numero dei parlamentari, che di per sè non direi presenta particolari negatività, non è comunque per niente sufficiente a risolvere l'annoso nostro problema della mancanza di una vera democrazia governante.

Ma come siamo arrivati a questa proposta di legge?
La riflessione sul punto non può che partire dal sempre più profondo solco che si è venuto a scavare fra società e politica. Un solco che negli ultimi anni si è alimentato da uno dei più forti assunti del populismo: quello della contrapposizione del "popolo sano" alla "casta corrotta e parassitaria". Un tema non soltanto italiano, che qui da noi ha preso un'accelerazione con la pubblicazione di un fortunato, (e a mio avviso sciagurato) libro di un noto giornalista, che coniando il termine "casta" per la classe politica, ha finito (magari in modo preterintenzionale) per alimentare il discredito verso i politici, per altro già ribollente come in un fiume carsico.

Un discredito certamente in parte giustificato dalle condotte di una classe politica che ormai da vari lustri sembra aver smarrito ogni capacità di adeguatezza al proprio compito, ma consentito da un contesto sociale che ha perso gli strumenti per la valutazione consapevole di coloro che sono investiti di capacità di rappresentanza politica. Se così non fosse, la politica non potrebbe permettersi quelle indecorose capriole a cui assistiamo. E' quindi una falsa via quella di contrapporre una società sana ad una politica corrotta. E' un binario morto che fa comodo per sviare dal vero percorso che ci consentirebve di superare il nodo più complicato della nostra crisi: quello di un capitale sociale che dovremmo ricostruire, - e che ora abbiamo dissipato - quale premessa per il rilancio del sistema paese.

La Legge Costituzionale su cui dovremo esprimerci è indubbiamente figlia di questo clima di antipolitica: un clima certamente alimentato dalle condotte e dalle inadeguatezze della classe politica, ma che è comunque stata scelta democraticamente da una società non certo pervasa da forti spinte morali ed ideali, e che - diciamolo senza infingimenti - non raramente si rispecchia nei comportamenti dei suoi rappresentanti politici.
Ribadisco che non è vera la contrapposizione di una politica inadeguata e corrotta ad una società sana e virtuosa; il tema vero è quello del rilancio della politica quale espressione di una società che dovrà ritrovarsi attorno ad una nuova cultura della responsabilità ed attorno ad un ricostituito capitale sociale.
Come si vede, in questo ragionamento il numero dei parlamentari è tema marginale. Si possono comunque ridurre, sapendo che il Paese ha bisogno di riforme di ben altro spessore, ma sapendo altresì che non è certo il numero dei parlamentari a determinare la qualità della rappresentanza democratica della società italiana. Il tema vero non è il numero, è la qualità.

La riforma su cui voteremo ha pertanto una carica riformatrice pari a zero. Essa è figlia del virus dell'antipolitica che, come in un fiume carsico, di tanto in tanto emerge nella storia italiana e non solo. Un virus che, diciamolo senza ipocrisie, è stato alimentato anche da una classe politica (la cosiddetta casta) che mentre ha fatto di tutto per perdere progressivamente legittimità agli occhi di parti sempre crescenti dell'elettorato, si è attribuita benefit e privilegi sempre più ampi.
La progressiva manipolazione parlamentare, il rifarsi alla folla, il trasformismo ha più volte indotto a delegittimare il Parlamento, i privilegi economici ed i benefit sono cresciuti in alternativa al suo prestigio e al suo svuotamento funzionale.

Soffermiamoci un attimo sull'antipolitica. Guardando il vocabolario si legge che l'antipolitica è l'atteggiamento di chi è ostile alla politica, alle sue logiche, ai partiti e agli esponenti politici, ritenendoli dediti ai propri interessi personali e lontani dal perseguire il bene comune.
Frutto dell'antipolitica è l'antiparlamentarismo, ricorrente nella storia delle democrazie europee a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Non è questa la sede per approfondire questo atteggiamento; è però la sede per consigliare di farlo. Sul tema esiste una ampia letteratura; è comunque sufficiente digitare con Google "Antiparlamentarismo", per trovare vario ed interessante materiale.

Comunque credo utile spendere qualche parola sull'antiparlamentarismo in Italia. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento cominciano a manifestarsi forme di insofferenza verso il parlamentarismo italiano. Le prime reazioni antiparlamentari non furono frutto di elaborazioni politiche ma piuttosto esternazioni letterarie. Sono i letterati, quindi, a fare da apri-pista nella critica al parlamentarismo; «fu la “via letteraria” che alimentò le pulsioni antiparlamentari di fine secolo e che, come esito ultimo, travolse il regime liberale, e con esso le sue classi dirigenti e le formule politiche». Nel finale del XIX secolo è soprattutto la letteratura, specialmente in Francia e in Italia, che ha influenza politica e che forma l’opinione pubblica. Ma non ci fu solo la letteratura: tendenze antiparlamentari (e antidemocratiche) erano presenti anche nelle teorie antropologiche, psicologiche, sociologiche, filosofiche e politiche di studiosi come Nietzsche, Mosca, Pareto, Sorel, Sergi, Morasso, Sighele.
Ancora, tendenze antiparlamentari si esplicitavano pure nella psichiatria di Lombroso, Ferrero, Morselli: laddove gli elementi di verifica delle teorie del delitto politico venivano a essere tratti dalla riflessione sui mali del parlamentarismo.
Poi vi era l'antiparlamentarismo di natura marxista e/o anarchica, che vedeva nel Parlamento l'espressione di quella società borghese che si voleva distruggere.
Insomma, vi era, alla fine dell’Ottocento, tutto un moto culturale-politico, che si muoveva criticamente nei confronti del parlamentarismo, così come questo si stava venendo ad atteggiare in Italia.

Nella tumultuosa temperie cultural-politica dell'inizio del Novecento, una delle principali fucine di elaborazione dell'antiparlamentarismo fu il gruppo organizzato da Giuseppe Prezzolini attorno alla sua rivista "La Voce", su cui, oltre ovviamente allo stesso Prezzolini, scrissero Emilio Cecchi, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Giani Stuparich, Sibilla Amerano, Margherita Sarfatti, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, ed altri importanti intellettuali dell'epoca.

Un ruolo fondamentale ebbe Gabriele d'Annunzio, i cui meriti poetici non compensano certo i suoi demeriti politici, avendo egli contribuito in modo fondamentale ad inculcare nella società italiana quel virus che ha condotto allo sfascio dello stato liberale e alla svolta autoritaria. D'Annnunzio è il massimo esponente di quelle correnti estetico-decadentiste che nel Parlamento stesso scorgeva una volgarizzazione degli impulsi eroici risorgimentali, rifacendosi al pensiero di Nietzsche, un’attività di mediazione che impediva lo slancio vitale insito nel super- uomo.

E qui è d'obbligo un cenno a Mussolini, che forse ebbe modo già di ascoltare Vilfredo Pareto a Losanna nel 1903, e che con il giornale il “Popolo d’Italia” da egli fondato nel novembre 1914, attraverso gli interventi di Papini e Prezzolini, accentuò l’aspetto morale e spirituale dell’intervento nella Grande Guerra in contrasto con le posizioni della maggioranza parlamentare guidata da Giovanni Giolitti.
Poi sappiamo come andò a finire....

Dopo la seconda guerra mondiale, i Padri Costituenti optarono per una Repubblica Parlamentare, basata sulla centralità del Parlamento in un equilibrio di poteri che comporta la necessità di una qualità dello stesso e di una sua sacralità che - soprattutto negli ultimi decenni - è venuta meno.
Si è così sviluppato un Populismo e antipartitismo che si coniugano in movimenti che diventano assembleari, favorendo l’emergere di leadership personalistiche che si fondano su movimenti che evidenziano doppie identità, sia rivoluzionarie che legittimate politicamente nel parlamento, con continue alternanze di potere che tra aspetti mediatici e patrimonialistici legate alle nuove tecnologie creano dei populismi di opinione democratica che vengono a depotenziare ulteriormente la legittimità dell’istituto parlamentare.

Come ho cercato di dimostrare, la storia dell'antipolitica e dell'antiparlamentarismo in Italia ha radici antiche. Essa ha coinvolto anche profili importanti della cultura nazionale, la cui capacità di elaborazione teorico-culturale relega l'antipolitica grillina e soci ad un ruolo di populismo d'accatto, anche se molto pericoloso giacché inserito in un contesto di progressivo indebolimento della consapevolezza storico-politica collettiva.

 

Il tema della legittimità e della rappresentanza democratica è un cavallo di battaglia dei fautori del No: ma è un'arma spuntata. Ormai da troppi anni gli elettori si trovano a dover subire ciò che hanno deciso organismi leaderisti, avulsi da qualsiasi meccanismo di coinvolgimento democratico; sono troppi anni che gli elettori si trovano davanti liste bloccate che hanno impedito qualsiasi vera scelta di personale politico; sono ormai troppi anni che i veri centri decisionali hanno manovrato a loro piacere le candidature, catapultando questo o quello dove più gli è piaciuto e/o convenuto, infischiandosene completamente dei radicamenti territoriali e del parere della base degli elettori. Il tema vero è quindi quello della Legge Elettorale, non certo quello del numero dei parlamentari.
Dopo ciò che le dirigenze dei partiti (o di ciò che di essi ancora rimane) hanno fatto, appare sinceramente ridicolo agitare la bandiera della rappresentanza e della legittimità democratica. Non che il tema di per sè non meriti attenzione: anzi, lo merita eccome! Ma lo merita se trattato seriamente nell'ambito di uno sforzo di riannodamento dei fili fra società e politica; non certo quale argomentazione strumentale per giustificare il mantenimento dell'attuale pletora di privilegiati.

Anche del numero dei parlamentari si può certo parlare. Allorché fu definito, in sede di redazione della Costituzione, non erano ancora state istituite le Regioni (se pur previste nella Carta Costituzionale), così come non esistevano tanti altri enti che poi sono stati costituiti. Non solo quindi il personale politico era complessivamente molto inferiore di numero, ma il Parlamento era depositario di moltissime competenze che poi sono state trasferite alle Regioni o ad altri enti locali.
Soprattutto con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario, le cui prime elezioni sono avvenute nel 1970, si è avuto un balzo nell'ampliamento della platea di personale politico di livello alto, quindi costoso e fornito di molti benefit, qual è quello che amministra le Regioni. Se pur con molta confusione, si sono poi trasferiti i poteri dallo Stato alle Regioni, e si è modificato il Titolo quinto della Costituzione, con la sciagurata riforma del 2001.
Tenuto conto che le Regioni italiane sono 20 (sarebbe ora di riflettere sulla eventuale riduzione del loro numero), più o meno abbiamo un migliaio di consiglieri regionali, e quasi 200 assessori. Va inoltre precisato che qualche Regione ha ridotto il numero dei consiglieri, forse prese da tardivi pudori.
Insomma, in Italia non mancano certamente i rappresentanti della volontà popolare. Anzi, ce ne sono in abbondanza, ed hanno trattamenti di sovente molto migliori rispetto ai loro omologhi di altri paesi.

Ed infine, questa volta ultimo anche d'importanza, un fugace passaggio sul tema del risparmio, che pur esiste, ma che non è certo l'argomento fondamentale. Se veramente la riduzione dei parlamentari mettesse a rischio la rappresentanza democratica, non varrebbe certo la pena correre questo rischio per i risparmi ottenuti. Ma dato atto che questo pericolo è inesistente, non vedo proprio perché non considerare anche il tema del risparmio.

ed ora le conclusioni.
Anzitutto ribadisco che la Legge di revisione costituzionale sottoposta a referendum confermativo non è certo la riforma di cui l'Italia ha bisogno. Tuttavia non è certo quell'attacco alla democrazia agitato dai sostenitori del No. La riduzione del numero dei parlamentari ci sta, anche in ragione della diversa articolazione del potere rispetto al momento di scrittura della Costituzione vigente. Anzi, diciamo che questa riduzione sarebbe stato meglio farla già da tempo, quantomeno parallelamente all'istituzione delle Regioni a statuto ordinario.
Certo ora può assumere un significato di scelta antipolitica, sicuramente da respingere, proprio in una fase storica in cui la risposta ai grandi e complessi interrogativi del nostro tempo non potrà che venire dalla politica. Ma da una politica certo diversa da quella che oggi ci viene offerta: insomma è un problema di qualità e non certo di quantità.
Ripensando ad una celebre frase di Montanelli, "turiamoci il naso e votiamo Sì". Ma facciamolo con la consapevolezza che il nostro Sì non va alla riforma di cui l'Italia ha bisogno; il nostro Sì va solo ad un segnale - penso utile - per sottolineare la necessità di qualcosa di assai più ampio, che possa realmente creare le condizioni per una stagione di democrazia governante.
Respingere anche questo se pur timido segnale di cambiamento, sarebbe un altro colpo inferto alla capacità riformatrice della società italiana; un altro "colpo mortale", dopo quello inferto con la bocciatura della riforma costituzionale sottoposta a referendum nel 2016.
Votiamo quindi Sì, pensando al Paese, prescindendo dalle indecorose capriole dei partiti e dalle strumentalizzazioni che fanno dell'appuntamento referendario.

Temi importanti quali la qualità della politica, la legittimità della rappresentanza democratica, il rapporto fra società e classe politica, sono troppo seri per essere affidati ad una campagna elettorale referendaria. Sono temi che sicuramente andranno affrontati, e se vogliamo uscire dalla solita logica degli slogan dobbiamo sapere che solo una grande presa di coscienza ed una mobilitazione collettiva potranno consentire quel salto di qualità di cui si avverte tanto il bisogno.
Riduciamo pure il numero dei parlamentari, sapendo che le grandi sfide per il futuro del Paese sono lì ad attendere il nostro impegno.

Lucca, 23 agosto 2020

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