logo Fucinaidee

Commento introduttivo

In moltissime occasioni ho avuto modo di sottolineare come sia illusorio pensare al tema della distribuzione del reddito senza porsi, preventivamente, il problema di come produrlo.
UN tema ovviamente molto aggravato dall'emergenza Covid-19, ma ben presente in Italia da molto prima. Sì, presente da vari decenni, ovvero da quando l'Italia si è progressivamente allontanata dai ritmi di crescita dei suoi principali competitor nello scacchiere economico globale.

Eppure in Italia, in ampi settori dell'opinione pubblica e della politica, anche di settori di questa che hanno attualmente responsabilità di governo, si annida una strisciante mentalità anti-economica ed anti-industriale, che sogna vagamente una bucolica decrescita felice, senza rendersi conto - o senza volersi render conto - delle conseguenze a cui potrà portare una siffatta visione.

Ma al di là di queste componenti, in Italia è ampiamente diffusa una sorta di diffidenza verso l'impresa, vista come strumento di arricchimento di singoli, e non come strumento indispensabile per la crescita dell'intera comunità.
Naturalmente alla diffusione di questa idea non è estraneo il mondo degli imprenditori, purtroppo spesso attenti solo al loro profitto immediato, dimenticando il loro fondamentale ruolo sociale, invece molto sentito, ad esempio, nella sfera di cultura anglo-tedesca. Comunque, va detto con chiarezza, immaginare una politica industriale è cosa ben diversa dall'immaginare una politica per gli industriali.

Il tema centrale del momento è quello della creazione delle condizioni per ridare slancio e competitività al sistema Paese. E per questo è indispensabile affrontare con decisione i molteplici nodi delle riforme necessarie: snellimento sostanziale degli adempimenti burocratici, efficientamento della Pubblica Amministrazione, investimenti sulla scuola ed in genere sulla formazione, riforma della Giustizia, riforma fiscale a partire dalla riduzione dei carichi riguardanti il costo del lavoro. Temi che tutti conoscono, che vengono da lontano, e che, proprio per questo richiedono decisioni coraggiose che solo una autentica democrazia governante può avere la forza di affrontare. Quindi il discorso ritorna al funzionamento della politica e della struttura istituzionale dello Stato.
La società italiana, al di là del solito bla-bla progressista, è profondamente conservatrice, condizionata da forti spinte corporative, quindi refrattaria ad un vero disegno riformatore, come ne fanno fede i ripetuti fallimenti dei vari progetti di riforma tentati negli ultimi decenni.

Ma la via è strettissima: o il Paese e la classe politica che lo rappresenta prendono coscienza della necessità di cambiare passo, o ci troveremo avvitati in un pericoloso declino che coinvolgerà anche coloro che oggi si sentono protetti sotto l'ombrello dei "diritti acquisiti".
Infatti, di fronte a risorse sempre più magre, non ci potranno essere posizioni intoccabili.

Anche se credo che la componente più avveduta della classe politica sia ben consapevole dei problemi, il discorso pubblico si mantiene molto distante dalla capacità di disegnare un autentico orizzonte di sviluppo. E questo perché ormai prevale in tutti la ricerca del dividendo elettorale immediato, rispetto alla proposta di un progetto difficile da capire da una società anch'essa sempre più condizionata da una narrazione semplice e funzionale al conseguimento di obiettivi immediati: è l'affermazione del corto respiro sulla prospettiva, della ricerca della soddisfazione del presente sulla capacità di immaginare un futuro, è in altre parole, ricorrendo ad un noto proverbio, l'affermazione che "è meglio un uovo oggi che una gallina domani".
Ma è una logica pericolosa, perché le uova stanno finendo, e senza le galline non ci sarà più chi potrà continuare a fornircele.

Se negli anni '60 il tema della ridistribuzione del reddito era sicuramente prioritario, oggi è prioritario il tema della sua produzione. O il Paese nel suo complesso ne prenderà coscienza, o le conseguenze saranno pesanti per tutti.
Giovanni Cagnoli, nel testo che condivido e che propongo ai lettori di Fucinaidee, lo dice con estrema chiarezza.

Paolo Razzuoli

La crisi e lo sviluppo - Dobbiamo creare ricchezza affinché possa essere redistribuita

di Giovanni Cagnoli

Dopo 40 anni di sbornia da debito siamo chiamati a un processo di normalizzazione. Abbiamo dalla nostra tassi di interesse bassi per 10 anni e l’ancoraggio europeo e atlantico. Non è poca cosa perché da soli sarebbe pressoché impossibile farcela. Pur tra mille crisi gli ultimi 75 anni sono stati di pace senza guerre o conflitti che sacrificassero migliaia di vite umane. Quindi possiamo farcela, con uno sforzo simile a quello del dopoguerra e con il vantaggio notevolissimo di partire da una base di benessere, welfare e diritti che i nostri padri nemmeno immaginavano possibili.

Ma non possiamo più raccontarci storielle divertenti e populiste. I soldi sono pochi e vanno spesi bene. Devono essere investiti sul nostro futuro e su quello dei nostri figli. Lo spreco non è più accettabile. La competenza nella gestione pubblica è una necessità categorica. Un incompetente non vale un competente. Bisognerà fare anche scelte dolorose.

Se invece vogliamo continuare a nascondere la testa sotto la sabbia bisogna cominciare a fare sapere ai nostri pensionati, dipendenti pubblici e garantiti che il prezzo del risveglio sarà pesantissimo e quasi esclusivamente a loro carico. Senza creare reddito non si potranno mantenere le forme di assistenza e garanzie molto generose di cui molti godono oggi. Quindi è bene iniziare a rendere noto l’ovvio e cioè che prima o poi senza sviluppo economico adeguato pensioni, sanità e pubblico impiego saranno falcidiate senza appello perché una comunità non può vivere sopra i propri mezzi per 2 o 3 generazioni. E quando le risorse termineranno, l’unica soluzione sarà tagliare spese e il tenore di vita.

Bisogna che tutti facciano il tifo, direi quasi un tifo sfrenato per chi produce ricchezza, reddito, lavoro, base imponibile e tasse. Anche se oggi accade l’opposto: come se produrre ricchezza fosse sinonimo pressoché automatico di evasione fiscale o disonestà. Il lavoro sia esso dipendente o autonomo dipende dallo spirito imprenditoriale di chi il lavoro lo offre o lo intraprende. Senza lavoro non c’è dignità, non ci sono tasse, non ci sono pensioni, non c’è sanità e istruzione. Quindi lode e merito a chi il lavoro lo crea per sé o per altri. Non sarà certo lo Stato a creare lavoro e base imponibile perché in quel caso sarebbe spesa e non una risorsa.

Il Covid ha devastato una minoranza della popolazione italiana, ma si tratta di quella minoranza che sostiene la possibilità dei trasferimenti alla maggioranza che non ha subito impatti economici. Prima ci rendiamo conto che dobbiamo aiutare lo sviluppo e la creazione di reddito per poterlo redistribuire meglio sarà.

L’illusione che basti redistribuire è fallace e pericolosa, perché i paesi del nord Europa “frugali” sono sgradevoli è certamente non privi di incoerenze, ma alla fine noi ci dobbiamo confrontare con le loro scelte in termini di lavoro, pensioni, assistenza e welfare. E il confronto appare oggi molto difficile da sostenere, se non impossibile.

Abbiamo l’ultima occasione prima di un pericolosissimo giro di vite che sarà inevitabilmente imposto dall’esterno. Non sprechiamola per miseri calcoli di potere o per essere sicuri di potere scegliere un presidente della Repubblica “amico” o peggio di parte. Sarebbe davvero grave e sconsiderato.

(da www.linchiesta.it - 13 agosto 2020)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina