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Le parole per dirlo - I bonus del governo non sono bonus, sono sussidi

di Flavia Perina

Magari si potrebbe cominciare a non chiamarli più Bonus e a dire con chiarezza la parola proibita: sussidi. Sussidi ai poveri e ai quasi-poveri. Sussidi ai disoccupati, attuali e potenziali. Sussidi alle imprese in pre-fallimento e ai settori collegati. Ne stiamo distribuendo con la pala, di sussidi, ma non abbiamo il coraggio di dirlo. E l’ambiguità politico-semantica del Bonus incoraggia la confusione e le miserabili furbizie, tipo quella dei cinque parlamentari e del popolare conduttore che hanno chiesto e ottenuto i 600 euro del primo Decreto Covid.

Un Bonus è – per il vocabolario – uno sconto, un abbuono, o anche una gratifica speciale elargita a scopo di incoraggiamento. Un Bonus, nelle aziende, è un aggiunta a ciò che spetta di diritto, di solito collegata ai risultati ottenuti. In politica, da noi, è diventato il vestito elegante di ogni pubblica elargizione. Abbiamo il Bonus scuola, il Bonus docenti, il Bonus famiglia e figli, il Bonus mobili, il Bonus pubblicità, il Bonus caldaie e pure il Bonus condizionatori. Stavamo per ottenere il Bonus trattoria, ma ci hanno ripensato. Però c’è il Bonus monopattini, il Bonus Smart Tv, il Bonus latte in polvere, il bonus elettrodomestici (con o senza ristrutturazione) e addirittura un Bonus matrimonio consistente “in una somma riconosciuta nel periodo di congedo straordinario dovuto alle nozze”.

La pratica per ottenere questi Bonus di solito è un girone infernale, fatto apposta per favorire i furbissimi più che il normale cittadino: l’astuzia del furfante è valore aggiunto nella giungla che bisogna attraversare prima del fatidico bonifico o sconto, e non deve sorprendere nessuno che nel nostro leninismo realizzato, nell’epoca del governo alle cuoche, ci sia una certa percentuale di miserabile bricconeria pure tra i banchi di Montecitorio. Il governo è consapevole da sempre della distanza tra Bonus e ordinari cittadini. Per il Bonus Bebè, che è una costante della nostra storia (ne abbiamo avuti sette diversi tipi dal 2009 a oggi) non si è mai riusciti a distribuire più di un quarto delle cifre stanziate per scarsità di domande: il povero vero, quello a cui era ed è destinato l’aiuto, non legge il Sole 24 ORE e probabilmente non ne ha mai conosciuto l’esistenza.

Restituire la giusta denominazione ai Bonus non è solo una questione di vocabolario. Dire “sussidi” significherebbe nominare finalmente la realtà delle cose: c’è un numero significativo di italiani che non ha risorse per tirare avanti, per pagare le bollette, per mandare a scuola i figli, talvolta addirittura per vestirli e nutrirli. O lo Stato se ne fa carico o si espone alle logiche conseguenze di una crisi economica di massa, alle rivoluzioni dei tamburi (come in Argentina), delle pentole (come in Islanda), dei gelsomini (come in Tunisia). Ma dire “sussidi” significa anche aprire un vero dibattito su chi debbano essere i beneficiari del pubblico denaro, in quale misura, con quali modalità, e sgomberare il campo dall’ipocrisia che ci impedisce di partecipare alla riflessione in corso in tutto il mondo sul possibile welfare del Terzo Millennio.

Un governo di coalizione tra populisti e sinistre non dovrebbe avere paura di descrivere l’emergenza in corso con le parole giuste. Di solito questo tipo di depistaggio è collegato all’altra parte, al mondo del liberismo, che teme di deludere il suo pubblico usando termini legati al vecchio Stato sociale. E infatti il termine Bonus fu usato massivamente dai primi governi di Silvio Berlusconi (il più famoso riguardava le dentiere) e poi adottato a cascata da tutti gli altri, compresi i grillini che avrebbero dovuto essere i rivoluzionari della trasparenza.

Adesso, dopo l’epidemia e con il timore di una nuova emergenza sanitaria, davanti ai problemi senza precedenti che pone un’ondata di licenziamenti nell’ordine delle centinaia di migliaia, il soffice eufemismo dell’epoca delle vacche grasse – o relativamente grasse – non regge più e non aiuta né i poveri, né i ricchi, né il ceto medio che ancora spera nella ripresa. Dire sussidio al sussidio è una necessità per capire cosa stiamo facendo, come stiamo spendendo e perché.

(da www.linchiesta.it - 10 agosto 2020)

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