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Commento introduttivo

Il Consiglio dei ministri ha approvato - ieri 13 maggio - il cosiddetto “decreto rilancio” – l’ex “decreto aprile” – cioè un decreto legge che prevede lo stanziamento di 55 miliardi di euro per aiutare imprese, famiglie, lavoratori, la sanità e la Protezione Civile. L’approvazione è stata annunciata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in conferenza stampa insieme ai ministri dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri, della Salute Roberto Speranza, dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e delle Politiche agricole Teresa Bellanova. Conte ha detto che è un testo «complesso, con oltre 250 articoli, ma tenete conto che parliamo di 55 miliardi, pari a due manovre, a due leggi di bilancio», che ora potrà essere migliorato con l’aiuto del Parlamento.

Ebbene, parto proprio dal presidente del Consiglio, che ha richiamato le due manovre finanziarie. Purtroppo, i riti, le manovre, i mercanteggiamenti di cui questo decreto è frutto, richiamano proprio tutti gli attrezzi con cui normalmente in Italia vengono concepite le manovre di bilancio. I vari interessi si fronteggiano nell'assalto alla diligenza, e chi più urla più ottiene. Sono decenni che in Italia va avanti così, ed i risultati si vedono: nessuna idea di Paese, nessuna seria scelta di prospettiva, ma un guazzabuglio di rivoli di spesa, appiccicati in testi omnibus in cui trova posto tutto ed il contrario di tutto.

In questa circostanza ovviamente le cose sono molto complesse e, diciamolo con estrema chiarezza a scanso di equivoci - sarebbe stata una sfida gigantesca per chiunque, figuriamoci per una classe politica i cui limiti sono ben noti da tempo. Certo questa drammatica emergenza, dicevo di estrema difficoltà per chiunque, li ha fatti emergere in tutta la loro nudità.

Questa circostanza poteva, anzi doveva, rappresentare l'occasione per avviare un percorso di rimozione degli ostacoli più cronici che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno significativamente compromesso la capacità di crescita del Paese. Di un siffatto approccio non vi è traccia nel decreto, un testo di oltre 400 pagine e circa 250 articoli, in cui è ricompreso un po' di tutto: bonus, cassa integrazione, sussidi vari, immigrazione, spese per la sanità e via dicendo.

Ovviamente non intendo certo sottovalutare la necessità di dare un ristoro economico ha chi - da un giorno all'altro - si è trovato senza alcuna fonte di reddito. Ma il tema su cui occorre uno sforzo, non solo economico ma ancor prima di strategia, è quello del sostegno allo sviluppo; certo con i necessari sostegni finanziari ma, direi ancor prima, rimuovendo gli ostacoli cronici (vedi l'invasività burocratica), che da decenni, nonostante le diffuse denunce e promesse, tengono al palo il paese.
L'emergenza potrebbe offrire un'occasione propizia per fare ciò che in situazioni ordinarie non è possibile.
Ma a questa sfida ancora una volta si è preferita la vecchia logica dei sostegni a pioggia; una scelta che nel breve periodo certo può dare un ristoro ma che, nel medio-llungo orizzonte, finirà per condannare l'intero sistema paese.

Ma è solo una difficoltà di una politica ingabbiata nella "dittatura del presente"? Penso che no, non è solo questo. E' anche la conseguenza della strisciante cultura anticapitalista e antiindustriale assai diffusa nel nostro paese, e rappresentata nelle forze di governo. Una cultura a cui si ispirano dichiaratamente i populisti del M5s, ma anche una cultura annidata in parte del Pd e in Leu.
La strada di una solida ripresa non potrà che passare attraverso lo scioglimento di questo nodo gordiano, ovvero dalla sconfitta di una cultura politica inadatta a progettare un modello di paese moderno, in grado di competere in un'economia sempre più interconnessa. Tema questo ben evidenziato anche dall'emergenza coronavirus, i cui effetti economici sembrano in Italia molto più pesanti che in altri paesi europei, che sono riusciti a costruire sistemi molto più reattivi e pronti a sostenere le sfide della contemporaneità.

Un'ultima piccola (ma non marginale) chiosa: Conte ha detto che il decreto potrà essere migliorato dal Parlamento: eufemismo che lascia intendere che nel percorso di conversione assisteremo alla consueta girandola di emendamenti, dettati dalla pressione di vari interessi: un segnale che non promette niente di buono. Ciascuno cercherà di piantare la propria bandierina, sperando di accontentare il "presunto" proprio elettorato, sapendo che l'iter parlamentare sarà accompagnato dal controcanto della generale insoddisfazione del Paese (si sa, chi pretende di accontentare tutti finisce per non accontentare nessuno).

Sfogliando i quotidiani odierni, ho visto che molti articolisti si sono espressi sulla mia lunghezza d'onda: ovviamente amara consolazione! Per i lettori di Fucinaidee propongo la riflessione di Sabino Cassese, profilo di grande notorietà e di indiscutibile autorevolezza.

Paolo Razzuoli

Decreto legge "rilancio": le ombre sui tempi (e i modi)

di Sabino Cassese

il decreto legge "rilancio" destina risorse per un ammontare pari a circa un decimo del bilancio dello Stato, quasi il doppio dell'ultima manovra di bilancio, distribuiti per il 25 per cento alla cassa integrazione e ai lavoratori autonomi, il 20 per cento alle imprese, altri 10 agli enti locali, 10 alla sanità, quasi 10 a turismo e commercio, e le quote restanti ad agevolazioni fiscali e a erogazioni a favore di categorie diverse, come colf e badanti.

Il testo subirà ancora modifiche ed è quindi prudente soffermarsi sulle linee di fondo. L'intento è risarcitorio: ristabilire un equilibrio rotto non dalla pandemia, ma dall'azione governativa diretta a tenerla sotto controllo.

Il mezzo consiste in elargizioni. Partendo dai fondi disponibili, si tratta di identificare i danneggiati (addetti al turismo e ai trasporti, commercianti, imprese, professionisti, artigiani, rimasti necessariamente fermi per due mesi) e, quindi, i bisogni, nonché i modi e le procedure per risarcirli. Come nella crisi del 1929-33 (e in parte in quella del 2008), tutta la collettività, la cui salute è stata salvaguardata dal contenimento, pagherà il costo di questo risarcimento.

L' intera collettività deve infatti accollarsi il debito relativo (con l'aiuto dell'Unione europea che servirà a diminuire il costo del debito). Il risultato è un forte aumento del potere dello Stato come intermediario finanziario, come redistributore (ne è prova anche il forte aumento di cittadini che fanno richiesta di Indicatore di situazione economica equivalente).
In questo tipo di operazioni, è cruciale accertare con quale strumento si opera, chi sono i beneficiati e chi gli esclusi, quali sono i tempi di realizzazione e la durata e quali sarebbero state le alternative.

Lo strumento prescelto è il decreto legge, un atto al quale si dovrebbe ricorrere - dispone la Costituzione - "in casi straordinari di necessità e di urgenza". Il governo non ha tenuto conto dell'urgenza, visto che il decreto era stato annunciato due mesi fa e dovrà ora passare al vaglio del Parlamento (è stato messo da parte un "tesoretto" per gli ulteriori appetiti), indaffarato nella conversione di analoghi provvedimenti (dal 23 febbraio il governo ne ha prodotti 11). Aggiungo che negli ultimi sei-sette mesi le Camere hanno dovuto fronteggiare già quattro proposte "omnibus", cioè contenenti centinaia di norme disparate, relative a tutti i settori (bilancio 2020, "milleproroghe", "decreto fiscale", "Cura Italia"). Le opposizioni hanno ragione nel lamentare (mozione dell'11 aprile) che lo Stato di diritto è violato e che il Parlamento non è messo nelle condizioni di poter vagliare questa massa di atti disparati, che rimangono solo sotto l'occhio (si spera vigile) della Ragioneria generale dello Stato. Prima conclusione: se la pandemia ha un ciclo ormai chiaro, l'azione di governo ha un ciclo oscuro, vive alla giornata, non sceglie né gli strumenti né i tempi giusti.

Fino a dove deve arrivare il risarcimento? Chi include e chi esclude? Questa è una decisione difficile. Ma costruita nel modo che si è detto, ha fatto nascere in tutti la voglia di salire sul carro, per cui il decreto legge è divenuto una sommatoria di proposte (256 articoli, 495 pagine). Se si voleva scegliere, bisognava darsi un obiettivo, stabilire criteri per selezionare e poi resistere alle pressioni, scegliendo le priorità. Ad esempio, non andavano risarciti gli studenti, ai quali è stata sottratta una buona parte dell'anno scolastico (il diritto allo studio non è meno importante del diritto al lavoro), donando loro, ad esempio, libri da leggere o computer per collegarsi con gli insegnanti, oltre ai tablet previsti dal decreto Cura Italia? Perché includere i dipendenti pubblici che non hanno avuto danni e hanno qualche volta trasformato lo "smart working" in cura di affetti familiari? Si è considerato che risarcendo alcuni e non altri si creano nuove diseguaglianze? Ponendo vincoli ai beneficiari non si corrono i pericoli propri dello statalismo? Come sono state calibrate le misure per tener conto dei molti evasori?

Quando la legge sarà approvata, sarà risolto il problema? I tempi ordinari dello Stato non corrispondono agli obiettivi e alle esigenze della crisi, specialmente se alcune norme sembrano scritte da un teologo medievale (vi si prevedono piani che contengono programmi operativi, che dispongono misure, ma nell'ambito di altri programmi operativi previsti da altre leggi) e se occorre attendere decreti attuativi, notifiche alla Commissione europea, decisioni degli organi collegiali, stati di avanzamento lavori, controlli amministrativi che rallentano i funzionari onesti e non frenano quelli disonesti. Il governo non si è preoccupato degli impedimenti prodotti da troppo pesanti sanzioni e da controlli preventivi, che bloccano l'azione esecutiva e non si è chiesto se si poteva operare delegificando, invece di produrre tante norme che ingessano le burocrazie. Si sommano qui la storica inadeguatezza degli uffici di staff dei ministri e la scarsa attenzione per la realizzazione delle promesse di politici impegnati nella rappresentanza e nella comunicazione.

Mentre le opposizioni e la maggioranza auspicano il ripristino di una normale dialettica parlamentare, il decreto detto "rilancio" proroga di sei mesi il periodo di emergenza, nel quale si può decidere in deroga alle disposizioni vigenti. A questo si aggiungono gli effetti permanenti sul bilancio dello Stato: ad esempio, le assunzioni graveranno per decenni, producendo costi stabili, che non preoccupano tanto per i vincoli europei, quanto per il giudizio dei mercati sul nostro debito.

Il governo avrebbe avuto almeno un'altra alternativa. Invece di scegliere la direzione del risarcimento (quella del "dare", che confina con l'assistenzialismo), prendere la strada dell'accelerazione, cogliendo l'occasione della crisi per moltiplicare i suoi investimenti, sbloccando le procedure arrugginite, e per sgravare di vincoli, anche fiscali, gli investimenti privati, in modo da dare un impulso all'economia in generale, con ricadute in tutti i settori.

(dal Corriere della Sera - 14 maggio 2020)

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