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Il nemico immaginario - Il virus e la chiusura della mente anticapitalista

di Antonio Preiti

Viviamo un periodo strano, è sicuro: leggiamo argomentazioni, sillogismi, deduzioni lontani da ogni realtà di fatto e senza logica. Possiamo attribuirli alla confusione mentale, forse psichica, che la stranezza del periodo inevitabilmente comporta; va bene così. Ma quando le stesse argomentazioni arrivano da menti solitamente avvertite, allora scatta l’allarme cognitivo. Davvero abbiamo perso il senso delle cose?

Ci sono vari filoni di ragionamento (si fa per dire), di varia natura e di vario sentire che arrivano, più o meno, alla stessa conclusione: il post-epidemia dev’essere meno “capitalista”, meno “consumista” e meno – non lo dicono loro, ma noi ne traiamo le logiche conseguenze – meno libero.

Staremmo per dire meno felice, ma non vogliamo parlare di felicità. Riportiamoci a un terreno più noto. Nella loro mente il coronavirus sarebbe il prodotto della società “neo-liberista” e della società dei consumi senza limiti.

Resta inteso che, legittimamente, ognuno può essere contro ogni cosa, ma se vuole dimostrare che quanto dice è l’inevitabile conseguenza dei fatti, cioè basato sulla base delle cose che accadono, allora c’è ancora molto lavoro da fare.

 

Un primo dato di fatto, semplice, accertato e resistente come la roccia: il coronavirus è nato senza dubbio in Cina (non sappiamo esattamente il come), ma sul dove nessuno ha dubbi. Non è perciò nato a Wall Street, con tutta l’antipatia che ciascuno può avere verso quel mondo, non è nato lì, ma in uno degli ultimi paesi comunisti della terra.

Niente per cui quel paese vada “impiccato”; però nasce dal ritardo sociale, delle scarse condizioni igieniche e di tutta una serie di fattori (la cui proporzione di responsabilità non sappiamo dire) del mondo pre-capitalista, non “iper-capitalista”. Quest’ultimo l’ha subito, non creato.

Piuttosto si cerca (in occidente) la soluzione a questa epidemia nei laboratori di scienza più attrezzati e moderni, nelle ricerche delle case farmaceutiche, nel sistema sanitario nel suo complesso. Cioè, si cerca la soluzione nella modernità “capitalista”, che finora si è dimostrata capace di creare vaccini, strutture d’intervento sanitario e un welfare di massa.

 

La critica allora si sposta sul piano ideologico, e si sa che le ideologie (tutte, compresa quella liberista) non amano i fatti.

Andiamo avanti. Su Le Monde di qualche giorno fa abbiamo letto un accorato appello di personaggi dello “show business”, da Madonna a Robert De Niro; da Paolo Sorrentino a Monica Bellucci e altri ancora che fanno parte del mondo della moda (quello alto, molto alto, irraggiungibile, etereo) con decine di firme che chiedono « Non à un retur à la normale».

Si vede che il normale di prima non era, almeno per loro, soddisfacente. Addirittura scrivono che «Le consumérisme nous a conduits à nier la vie en elle-même»; il «consumismo ha negato la vita in sé stessa»: pensavamo fosse il virus a negarla, o almeno a minacciarla.

Ovviamente evitiamo qualunque ironia su quanti dopo aver creato (in parte) e vissuto (totalmente) sul consumismo, adesso sembrano pentirsene. Il virus non è arrivato per i nostri peccati, diremmo al proposito. Al di là di questo, francamente, e con tutte le indulgenze possibili, non riusciamo vedere la connessione tra il virus e il consumismo.

Se lasciamo l’affabulazione (tentata, non riuscita) e sempre restando ai dati di fatto, potremmo dire che il virus non è nato dentro una fabbrica di surgelati (il “consumismo” più ardito che conosciamo nel mondo alimentare), ma dal commercio di animali vivi, più o meno selvatici, cioè nel più vero e più autentico mercato pre-capitalista che si conosca. Non ci siamo: la tesi non regge. Neppure su questo.

Veniamo alla terza e più insidiosa “conseguenza”, del coronavirus: la statalizzazione dell’economia. In questo caso si sostiene che basta, non è più il tempo della logica del profitto, ma dallo Stato, che non ha per fine il profitto.

Ovviamente non ci riferiamo al sacrosanto appello affinché il soggetto pubblico intervenga a aiutare imprese e famiglie a superare la colossale crisi post-virus, ma all’idea che il virus abbia cambiato (o debba cambiare) la logica dell’economia che finora abbiamo conosciuto. Sembra perciò che la crisi attuale sia figlia del “profitto”. In quale modo non è dato sapere.

 

Ovviamente il profitto è solo una misura della capacità di un’impresa di creare ricchezza. Se non produce profitti un’azienda non può conservarsi; se chiude non crea ricchezza, non occupa persone e non può distribuire prodotti, servizi e, con la tassazione, ricchezza disponibile per lo Stato.

È molto semplice. Chi nega la funzione del profitto come indicatore di efficienza non sa nulla dell’economia, neppure di quella domestica. Quando un’impresa produce profitti, rispettando le leggi, dando dignità a chi lavora, non possiamo che dirci tutti felici. Non si capisce perché non dovremmo.

Semmai il discorso andrebbe indirizzato alle rendite. Perché le rendite, per definizione, non accrescono la ricchezza collettiva (a meno che non s’intreccino con qualche forma di impresa nella loro gestione) ma solo quella dei proprietari.

Si fa, invece, un semplice parallelo, in cui si scambia il “profitto” per “egoismo”. Il comportamento morale di un’azienda è creare lavoro, ricchezza e profitti. Non c’è un’altra sua morale specifica. Ovviamente rispettando i lavoratori, le loro condizioni materiali e immateriali, e le leggi.

Se tutto questo c’è, dov’è l’egoismo? Anzi, bisognerebbe parlare di altruismo, perché l’impresa, da quando è nato il mondo, è il modo più formidabile di creare e distribuire ricchezza (anche per lo stato). C’è un modello superiore a questo? Qual è?

Forse si riferiscono all’efficacia superiore dello stato nel caso della pandemia? Se guardiamo al comportamento degli stati nazionali, quasi tutti e con rarissime eccezioni, sono stati accusati (e sono tutt’ora sotto accusa) per come hanno affrontato l’epidemia.
Tranne la Corea del sud (di quella del nord non sapevamo neppure se il suo “caro” leader era in vita), l’Australia e (forse) Singapore, non c’è un solo stato al mondo che sia esente da critiche per come ha gestito l’epidemia del coronavirus.

Naturalmente non era per niente facile. Questo è ovvio; ma non c’è stata nessuna particolare performance che oggi ci possa suggerire che il sistema “capitalistico” sia sbagliato e che, per avere un’efficienza maggiore, bisogna diventare tutti statalisti. Non ci sono evidenze, neppure in questo caso.

Allora non bisogna cambiare niente? Il mondo non si ferma mai, perciò nessuno potrà mai dire che uno “status quo” è destinato a restare (o merita di restare) com’è, e per sempre. È semplicemente ridicolo pensarlo.

Abbiamo tutto il mondo della tecnologia che deve avere maggiori regolazioni (non proprietà) pubbliche, a garanzia dei cittadini, non a garanzia dello Stato.
Abbiamo un sistema sanitario il cui costo è già fuori controllo (sia dove è essenzialmente privato, come negli Stati Uniti; sia dove è essenzialmente pubblico, come in Italia e in Europa) e per il quale bisognerà trovare modi innovativi e creativi per rispondere all’esplosione della domanda con costi equi e sostenibili.

È evidente che sullo Stato, o meglio sulle regolazioni pubbliche, bisognerà tornare. Bisogna evitare che il maggiore potere pubblico si trasformi nel maggiore potere dello Stato, in quanto corpus di funzionari e in quanto burocrazia. Piuttosto bisognerebbe impegnarci affinché il maggiore potere pubblico si trasformi in un maggiore potere dei cittadini.
Differenza che nel post-virus è decisiva. La strada maestra è la maggiore responsabilità sociale di tutti, persone, famiglie, imprese. La conseguenza della libertà è la responsabilità. È questo che dobbiamo auspicare, non una burocratizzazione della vita.

 

Forse queste domande rivolte al “capitalismo” nascondono altre inquietudini. Su quelle inquietudini l’economia non ha le risposte e neppure il “capitalismo” le ha. Se il coronavirus ci ha fatto riflettere su quel che conta davvero; su come, seppure distanziati, ci sentiamo comunità; sulla vanità di tanti beni materiali e sul senso della vita, le risposte dobbiamo cercarle altrove: forse dentro di noi, non in un nemico immaginario.

Riflettiamoci; diamoci risposte; costruiamo soluzioni inedite, ma non esternalizziamo sempre i problemi, creando un’ideologia che ci assolva da peccati che non abbiamo fatto. Troppo facile, troppo banale, troppo sbagliato per essere vero.

(da www.linchiesta.it - 12 maggio 2020)

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