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Misteri della pandemia - Ma quindi chi ha scelto (e che fine ha fatto) la app Immuni?

di Lidia Baratta e Nicola Biondo

Ma quindi chi ha scelto la app Immuni? E soprattutto dov’è finita? Perché non è ancora operativa a più di due mesi dall’inizio della pandemia?

Sull’applicazione anti-Covid della società Bending Spoons regna il mistero. Tant’è che, dopo l’audizione della ministra dell’Innovazione Paola Pisano, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) ha riconvocato per oggi, giovedì 7 maggio, il direttore del Dis Gennaro Vecchione e del suo vice, Roberto Baldoni, che saranno sentiti di nuovo in via straordinaria, prima del commissario Domenico Arcuri.

L’audizione della ministra del 5 maggio avrebbe dovuto essere risolutiva. E invece Pisano, dopo aver ripetuto più volte per diversi giorni che la app era stata scelta dalla sua task force di 74 esperti, a sorpresa davanti al Copasir – come confermano dal comitato – avrebbe tirato di mezzo il Dis. Dicendo che la task force ha svolto sì la scrematura tra le società, individuando le due app Immuni e CovidApp, ma poi la scelta sulla prima sarebbe stata fatta direttamente dall’intelligence perché in linea con le direttive europee sul tracciamento.

Insomma, la ministra Cinque Stelle alla fine non avrebbe fatto che seguire le indicazioni degli 007 e comunicare la decisione al presidente del Consiglio. Una versione che però non collima con quanto dichiarato dal direttore del Dis Vecchione, che nella precedente audizione al Copasir aveva raccontato invece cioè di aver valutato la app solo a scelta già avvenuta, con l’obiettivo di renderla sicura da possibili attacchi.

Qualcosa non torna. E non solo per le dichiarazioni contraddittorie, che accrescono il mistero attorno alla scelta della app di Bending Spoons, ma anche per la cronologia degli eventi che hanno portato a Immuni.

Nonostante dopo oltre 20 giorni dalla scelta della Pisano dell’app ancora non ci sia traccia, tra gli organi di governo il ministero dell’Innovazione in realtà è stato il primo a essere allertato sull’uso di strumenti tecnologici per combattere il virus. Prima ancora del lockdown di marzo, alla ministra viene infatti consegnato un piano per l’uso dei big data per la gestione dell’emergenza, che in quel momento ancora pochi intravedono.

Il piano è firmato da due professori: Carlo Alberto Carnevale Maffé e Alfonso Fuggetta. Il primo insegna strategia d’impresa alla Bocconi. Il secondo è docente di informatica al Politecnico di Milano, dove dirige il Cefriel, polo tecnologico all’avanguardia che in occasione dell’Expo di Milano del 2015 aveva già sviluppato il sistema E015 per monitorare attraverso i dati cosa accadeva in Lombardia durante l’esposizione universale.

Il documento di 20 pagine propone l’utilizzo dei biga data secondo il protocollo indicato dalla Commissione europea Dp-3T (Decentralized Privacy-Preserving Proximity Tracing) per andare a caccia del Covid e non subirlo passivamente solo con il lockdown. Il report viene inviato il 25 febbraio in Regione Lombardia. E tra fine febbraio e i primi giorni di marzo arriva sui tavoli del governo.

L’idea è di applicarlo subito in Lombardia e poi nel resto d’Italia. Dal Pirellone decidono di ignorare il documento. A Roma, invece, quei fogli approdano prima al ministero della Salute, che a sua volta passa la palla al ministero dell’Innovazione. Ma qui si fermano.

Pisano prende tempo. E per decidere il da farsi, al ministero dell’Innovazione viene lanciata una call per selezionare esperti in grado di individuare soluzioni tecnologiche per la gestione del virus, sul modello sudcoreano di cui già si parla tanto. Da qui nasce alla fine la task force di 74 esperti, a cui partecipano anche Carnevale Maffè e Fuggetta, che firmano subito – come tutti i gruppi di esperti al lavoro in questo momento – un rigido accordo di riservatezza. I sei sottogruppi di super esperti cominciano così a lavorare e produrre report.

Intanto siamo a marzo inoltrato. L’Italia è già entrata nel tunnel del lockdown. Il governo per un intero mese non parla né di tracciamento dei contagi, né di big data. Dominano il “restate a casa”, i medici eroi, i bollettini delle 18 con la conta dei morti, e l’appello per le donazioni. E tra le donazioni più generose, ce n’è una che attira l’attenzione e viene raccontata dai giornali. Quella di Bending Spoons, azienda milanese nota per lo sviluppo delle app e i ritiri aziendali in luoghi esotici, che il 12 marzo dona 1 milione di euro alla Protezione Civile.

L’azienda per un po’ scompare dai radar. Il 23 marzo, poi, il ministero dell’Innovazione lancia il primo bando (fast call) alle aziende per lo sviluppo della app di contact tracing. Il termine per la presentazione dei progetti scade tre giorni dopo, il 26 marzo. Il 7 aprile vengono consegnate le relazioni dei gruppi della task force. E il 16 aprile arriva l’ordinanza del commissario Arcuri che comunica la scelta: la società individuata è Bending Spoons, che svilupperà la app Immuni.

Da questo momento, cala il mistero. I lavori istruttori della valutazione delle app all’inizio sembrano esser stati secretati. Bocche cucite dallo staff della ministra, da cui negano però ogni segretezza sull’iter decisionale. E anche da parte dei componenti della task force, obbligati all’accordo di riservatezza. Ma mentre la ministra continua a ripetere che la app è stata scelta dalla task force, dagli esperti che hanno lavorato per il ministero cominciano a sollevarsi i primi malumori. «Non siamo stati noi a scegliere Immuni. È una distorsione della verità attribuire a noi la scelta di una app», sono le voci di alcuni di loro. Che inviano alla ministra una comunicazione in cui precisano che la responsabilità della scelta della app non può essere attribuita alla task force.

Finché il 30 aprile, solo dopo l’approvazione del decreto legge sul contact tracing, sul sito del ministero dell’Innovazione appaiono i report realizzati dai sottogruppi della task force. E così si scopre che il sottogruppo 6 (Tecnologie per l’emergenza) non aveva indicato una sola app, ma aveva invece raccomandato al ministero di testarne due in parallelo, Immuni e CovidApp, prima di arrivare alla scelta definitiva. L’8 aprile anche il consigliere del ministro Speranza Walter Ricciardi aveva dichiarato all’Ansa che per la selezione «ci sarà una shortlist di app, ovvero una rosa di soluzioni tra cui scegliere». Lo stesso metodo suggerito dal gruppo di lavoro della task force. Poi, però, dal ministero dell’Innovazione della Pisano è arrivata la decisione di scegliere Immuni.

«Non ero a conoscenza che i lavori della task force fossero giunti alla conclusione della doppia app», ha detto lo stesso Arcuri in audizione davanti alla commissione Trasporti della Camera, precisando di non aver partecipato alla scelta della applicazione.

Chi ha scelto quindi la app Immuni? L’assenza di trasparenza su Immuni, che probabilmente non si chiamerà più così, non è solo una questione di principio per il partito che ha fatto della trasparenza il suo cavallo di battaglia. Perché la app abbia qualche efficacia nel contenimento del contagio, i cittadini devono infatti scaricarla volontariamente. E per scaricarla, decidendo di condividere dati e spostamenti, devono potersi fidare.

Oltre due settimane fa, anche l’Associazione Luca Coscioni ha inviato al ministro per l’Innovazione una richiesta formale di accesso agli atti, senza tuttavia ricevere risposta. Le richieste erano: conoscere i criteri di valutazione e i relativi punteggi e sapere chi e quanti hanno partecipato alla fast call. «Visto che la app non sarà obbligatoria, occorre coinvolgere le persone direttamente», spiega il segretario Filomena Gallo. «E per aver successo nella persuasione, occorre esser trasparenti e inclusivi». Esattamente il contrario di quanto fatto finora.

(da www.linchiesta.it - 7 maggio 2020)

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