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gli esperti e la fiducia

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

In poco più di un decennio il mondo ha subito due choc negativi di dimensioni epocali. Il primo fu l'effetto di un virus che si era sviluppato nel mondo della finanza, il secondo di un virus che si annida nei nostri polmoni.
I cittadini hanno diritto di chiedersi: che cosa hanno fatto gli "esperti" per prevedere, evitare e poi aiutare la politica a farci superare queste crisi?

E' una domanda legittima, cui va data risposta, altrimenti lo scetticismo che si va diffondendo sui risultati della scienza continuerà a produrre fenomeni come i No vax, un presidente americano che consiglia di bere candeggina e politici che oggi, nel mezzo di una crisi gravissima, propongono di far uscire l'Italia dall'Unione europea e far da soli con una "nuova lira".

Dopo la crisi del 2008 gli economisti ricevettero, e giustamente, critiche feroci per non aver capito che cosa stava succedendo nel sistema finanziario. Per la verità alcuni lo avevano capito benissimo, come Raghuram Rajan dell'università di Chicago, allora capo economista del Fondo monetario internazionale, o Robert Shiller dell'università di Yale, che per queste ricerche nel 2013 ricevette il Nobel, e tanti altri meno famosi. Ma non sono stati ascoltati dalla politica, anche perché i politici stessi si deliziavano nella bolla finanziaria. Forse gli economisti che avevano capito avrebbero dovuto insistere ancor di più. Gli altri, noi compresi, non avevano capito o si occupavano d'altro.

Per fortuna dopo il fallimento di Lehman Brothers gli economisti hanno reagito in fretta evitando che la crisi si trasformasse in una seconda Grande depressione. Ben Bernanke, allora capo della Fed, Mario Draghi, allora presidente della Bce, Olivier Blanchard, che era succeduto a Rajan come capo economista del Fmi, Mervin King, governatore della Banca d'Inghilterra, hanno letteralmente salvato il mondo. Certo non lo hanno fatto da soli, ma grazie alle lezioni che gli economisti hanno imparato studiando la Grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso e gli errori che allora furono compiuti. Il risultato fu che molti Paesi (non l'Italia purtroppo) uscirono da quella crisi con meno danni di quanto ci si aspettasse nei mesi più bui del 2008.

Oggi leggiamo e ascoltiamo da virologi ed epidemiologi famosi che di virus tipo il Covid-19, derivanti da contatti tra animali e uomo, ce ne sono moltissimi e che c'era da aspettarsi che prima o poi scoppiasse una pandemia. Ne parlò anche Obama già nel 2014, evidentemente informato e allarmato dagli scienziati della sua amministrazione: poi però non fece abbastanza per preparare gli Stati Uniti. Molti virologi avevano capito, come alcuni economisti prima del 2008, ma anche loro non sono stati ascoltati dalla politica. Così come gli economisti, forse anche i virologi potevano alzare un po' più la voce perché farsi ascoltare dalla politica non è facile. Lo scorso inverno, quando i primi allarmi arrivavano dalla Cina, non ricordiamo di aver visto decine di virologi levare in pubblico segnali di fortissimo allarme e previsioni su ciò che stava accadendo. Così come gli economisti hanno capito tardi ma reagito in fretta alla crisi, speriamo che ora i virologi facciano altrettanto.

Che lezione dobbiamo trarne? Vogliamo buttar via la scienza? Ovviamente no. Senza i progressi nel capire come funziona un'economia, dai libri di Keynes e passando per Franco Modigliani, Milton Friedman e tanti altri, la crisi del 2008 si sarebbe trasformata in una nuova Grande depressione. Senza gli sviluppi della virologia e della scienza medica il Covid-19 potrebbe fare più danni della influenza Spagnola del 1918, quando il numero dei morti fu stimato fra 20 e 100 milioni.
E' importante però distinguere fra "scienziati" ed "esperti". Gli scienziati lavorano nei laboratori, fanno esperimenti, sviluppano medicine e vaccini. Gli economisti, scienziati sociali, cercano di capire: ad esempio studiano quali politiche siano più efficaci per ridurre la povertà estrema con ricerche sul campo (sono quelle per le quali è stato assegnato l'ultimo Nobel per l'economia). E' importante che gli scienziati parlino al pubblico: ne abbiamo bisogno, eccome. Quando lo fanno però devono comportarsi "da scienziati", come in queste settimane hanno fatto in vari interventi pubblici Alberto Mantovani dell'Humanitas, Giuseppe Remuzzi dell'Istituto Mario Negri o Ilaria Capua dell'università della Florida. Devono spiegare che ogni risultato deriva da ipotesi, che le simulazioni, ad esempio quelle fatte dagli epidemiologi, derivano da modelli statistici, e le ipotesi dei modelli vanno chiarite, soprattutto va spiegato che i risultati delle simulazioni hanno un margine di errore: spesso la dimensione di questo margine di errore, cioè il grado di affidabilità, è più importante del risultato stesso.

Nelle scienze empiriche (sociali o naturali) non ci sono certezze: ci sono ipotesi più o meno probabili e più o meno confermate dai dati. Come ricordava Gianmario Verona sul Corriere del 26 aprile ("Il ruolo della scienza: fatti distinti dalle opinioni") citando Karl Popper: "A livello empirico non sussiste una verità assoluta, ma solo una possibilità di falsificare le teorie esistenti e approssimarsi alla realtà".

Questi sono gli "scienziati", come ha spiegato ieri su queste pagine il fisico Guido Tonelli. L'"esperto" invece è un utile divulgatore, cioè una persona che non fa ricerca, ma è capace di tradurne i risultati in un linguaggio comprensibile al pubblico. David Quammen, l'autore di Spillover: l'evoluzione delle pandemie (Adelphi, 2014), ne è un esempio. O Malcolm Gladwell, autore di Il punto critico (Rizzoli, 2000) in cui spiega come i cambiamenti sociali obbediscano alle stesse leggi delle epidemie. Quella dell'esperto è una funzione molto utile, ma solo se, come lo scienziato, l'esperto chiarisce i limiti dei risultati che divulga.

Purtroppo, invece, spesso l'esperto, soprattutto se è un "ex scienziato", medico o economista, la cui attività di ricerca risale a qualche decennio fa, interviene, in tv o sui giornali, senza mostrare alcun dubbio, sicuro che la sua opinione sia giusta. Più l'opinione dell'esperto è estrema, più è pronunciata con certezza e un po' di arroganza, più colpirà il pubblico, più sarà invitato a intervenire in tv o sui giornali. Nel caso del coronavirus questi "esperti" spesso hanno disorientato il pubblico: prima il Covid era poco più di un'influenza, poi avrebbe distrutto l'umanità e non si troverà mai un vaccino. Dopo mesi di lockdown la confusione sui dati è ancora enorme (anche qui un po' di colpa epidemiologi e statistici l'hanno) ma gli esperti hanno sempre una certezza su tutto.

In Italia abbiamo anche un altro tipo di esperto: il "tuttologo". I tuttologi non sono neppure esperti nel senso di cui sopra, sono dei jolly, utilissimi per riempire gli spazi dei talk show: gli scienziati, infatti, hanno poco tempo per i talk show perché sono nei loro laboratori. I tuttologi, invece, sono sempre disponibili, possono parlare di qualunque cosa, dalla politica all'astrofisica, passando per l'economia e la virologia. Se poi il talk show riesce ad averne due che organizzano una baruffa, ancor meglio: lo spettacolo è assicurato. Nulla di male, a volte è pure divertente. Ma deve sempre essere chiara a tutti la differenza tra uno scienziato, un esperto e un tuttologo.

(dal Corriere della Sera - 4 maggio 2020)

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