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Tra gli errori commessi e i pericoli che ci attendono

di Paolo Mieli

È un’illusione che l’emergenza possa finire in due settimane, mentre è evidente che l’allarme è stato sottovalutato ovunque e sarebbe dannosissimo riaprire tutto per poi richiudere

Nel mondo siamo ormai al milione di contagi. Un milione e già sappiamo che non ci fermeremo qui. Metà della popolazione dell’orbe terracqueo è chiusa dentro casa. L’Italia ha il record di morti (13.915). Insidiata dalla Spagna che ha superato quota diecimila. A Bologna è spirato il primo detenuto, ricoverato in ospedale. In Cina si sono registrati scontri sul ponte del fiume Azzurro con agenti dello Jiangxi decisi ad impedire il transito a viaggiatori provenienti dallo Hubei in cui è stata appena dichiarata la fine del blocco. Contemporaneamente è stata messa in isolamento una contea dello Henan confinante con lo stesso Hubei. A Hong Kong scatta la seconda quarantena dopo che il virus è riapparso anche a causa (sostengono fonti ufficiali) del mancato rispetto delle distanze di sicurezza nei ristoranti. In mezzo a queste notizie scelte tra le migliaia che da oltre un mese ci raggiungono giorno dopo giorno, colpiscono in modo particolare quella del decesso dell’uomo ricoverato in stato di detenzione e quella della seconda quarantena di Hong Kong. La prima perché è la spia di un problema irrisolto per eccesso di rigidità ideologica.

Le prigioni italiane sono stipate di detenuti che sarebbe prudente fare uscire in un numero consistente lasciando in cella quelli pericolosi. È evidente già da qualche tempo che sarebbe forse opportuno alleggerire il nostro sistema carcerario prima di essere costretti a farlo nella concitazione e nel caos di un’emergenza. La quarantena di ritorno imposta a Hong Kong dovrebbe indurci a riflettere sui rischi connessi al ritorno alla normalità. Ormai è chiaro che il virus non verrà sconfitto in tempi rapidi. Che con il Covid-19 dovremo trovare una forma di convivenza e che questa convivenza richiederà un rallentamento delle nostre attività assieme al mantenimento di molte precauzioni. L’idea che di qui all’estate tutto tornerà più o meno come prima, può servire a non farci perdere una dose di ottimismo ma è ad ogni evidenza irrealistica.

Bene ha fatto perciò il presidente del Consiglio a esortare gli italiani a tener duro fino a dopo Pasqua, lasciando intendere che poi molto probabilmente, a metà aprile, saremo costretti ad allungare il lockdown fino ai primi di maggio. Nei trenta giorni che ci separano da quella data sarebbe saggio studiare in dettaglio nuovi modi per rimettere in moto la macchina produttiva. Nella consapevolezza però che, come insegna l’esperienza Inps, la realizzazione dei progetti – di cui si discute, non senza qualche faciloneria, in tv (o sui giornali) – non è garantita. Tutti siamo ormai capaci di suggerire mappature di massa, metodi coreani, sostituzione di adulti con giovani, di uomini con donne, salvo poi scoprire che l’Italia, a oltre due mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza, è ancora alle prese con il caos delle mascherine.

È dunque utile progettare fin d’ora e dettagliatamente quel che dovremo fare quando usciremo dall’emergenza, ma è ingannevole prospettare che sia sufficiente volerci tirar fuori dall’attuale stato di cose per poterlo fare. Come se poi il non riuscirci fosse riconducibile alla pigrizia di governanti opportunisti, indecisi o eccessivamente prudenti. Riaprire per essere poi costretti, dopo qualche settimana o mese, a richiudere, oltreché dannoso, darebbe l’immagine di una classe dirigente inaffidabile. Anche nella sua componente scientifica.

Quanto al recente passato, è evidente che è stata proclamata troppo tardi la chiusura totale: molti non avevano calcolato quel che sarebbe potuto accadere e che poi è accaduto. Un errore grave ma quasi trascurabile se messo a confronto con quello degli altri Paesi europei e occidentali (a cominciare dagli Stati Uniti) i quali, pur avendo davanti agli occhi quel che stava succedendo in Italia, hanno continuato a minimizzare lasciando che il contagio si diffondesse e provocasse più morti del necessario. Molti di più. Troppi.

Ciò detto, lasciamo la polemica contro le istituzioni europee a chi ne fa una questione di identità e non sentirà ragione, neanche a dispetto di molte evidenze. Prima tra tutte: la Gran Bretagna, che ha lasciato la Ue, è lì a mostrarci come questa decisione non abbia influito, al momento della verità, sul modo di affrontare il contagio. Nessuna opportunità è venuta al Regno Unito dall’esser fuori dall’Europa. Ciò che dimostra come non sia questo il tema da mettere oggi all’ordine del giorno. Ma anche coloro che sono decisi restare, più o meno saldamente, in Europa dovrebbero avere un modo più composto nel trattare con i Paesi dell’area settentrionale del continente, Germania in primis. Le ragioni sono per lo più dalla parte di Francia, Italia e Spagna, ma è davvero sconsiderato mettere in campo l’idea che Berlino avrebbe nei nostri confronti dei «doveri di solidarietà» e dovrebbe esserci grata perché negli anni Cinquanta non imponemmo al Paese che era stato di Hitler la riparazione dei danni di guerra. Questo discorso potevano farlo i greci – peraltro inutilmente, a scopo evidentemente propagandistico – nel 2015. Perché i greci settantacinque anni prima erano stati aggrediti (dall’Italia di Mussolini, tra l’altro). Ma non se lo può permettere l’Italia che nel 1940 affiancò la Germania hitleriana nell’aggressione all’Europa. E, più in generale, non si può ogni volta che si hanno pur giustificate rimostranze nei confronti della Germania accusarla di essere rimasta o tornata ai tempi del Terzo Reich. Non si può perché questo non è vero.

La solidarietà che giustificatamente chiediamo ai tedeschi (e agli olandesi) dobbiamo saperla ricambiare con un atteggiamento più rispettoso nei confronti del dibattito interno di quei Paesi, peraltro più articolato del nostro. La richiesta di solidarietà dovrebbe poi andare al passo con il senso di responsabilità. Talché quando chiediamo di poter disporre delle risorse necessarie ad affrontare l’attuale crisi, dovremmo preoccuparci di dimostrare – in primo luogo a noi stessi – che i soldi ottenuti li spenderemo in modo avveduto. Se poi quegli euro serviranno per consentire di sopravvivere anche ai cosiddetti «lavoratori in nero» – come è doveroso che sia; sottolineiamo: doveroso – dovremmo altresì ricordare che l’impegno a venire a capo del gigantesco problema dell’evasione fiscale non può essere lasciato alle ore in cui si forma un governo quando si vuol portare qualche generica copertura alle voci di spesa. E dovremmo preoccuparci fin d’ora che quelle somme non finiscano neanche in parte nelle mani della malavita. La richiesta di solidarietà non può essere disgiunta dal senso di responsabilità. Neanche in circostanze straordinariamente drammatiche come quella attuale.

(dal Corriere della Sera - 3 aprile 2020)

(modifica il 2 aprile 2020 | 21:17)

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