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priorità è creare lavoro non dibattiti superati

di Alberto Orioli

Siamo sicuri che la nuova decade debba ripartire da un dibattito da archeologia ideologica come l’articolo 18? Il tema torna prepotente nell’agenda della discussione pubblica; la maggioranza cerca nuove bandiere comuni e le trova, guarda caso, rovistando nel vecchio baule dei ricordi del 900. Che si affronti il tema delle tutele nel caso dei licenziamenti collettivi è un conto (e la norma italiana è a prova di Ue). Un altro è rispolverare la discussione radicale sulla reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, grimaldello per una revisione dell’intero jobs act.

È un modo per cercare di rinserrare i ranghi di forze politiche allo sbando e senza guida sicura. L’articolo 18 potrebbe consentire un fronte unico tra la sinistra di Leu, una parte dei 5 Stelle e perfino una frangia del Pd che attende da tempo una vendetta verso l’eredità renziana.

Sullo sfondo pesa l’influenza della Cgil di Maurizio Landini che sull’articolo 18 ha più volte chiesto un ritorno al passato. Ma tutto serve oggi tranne che un ritorno a quella discussione passatista. Non solo il contesto planetario, con il suo prorompente rosario quotidiano di emergenze globali, induce a modernizzare obiettivi e slogan, ma anche la stessa fotografia del mercato del lavoro domestico impone di evitare sguardi sfuocati sulla realtà.

Oggi ci sono 18 milioni di lavoratori dipendenti, 4,4 sono part time (il 60% dei quali non voluti dal lavoratore ma indotti da cause economiche), 3 sono contratti a termine (una soglia fisiologica tornata tale dopo che le parti sociali hanno attutito gli effetti distorsivi del decreto dignità), oltre 5 milioni sono partite Iva.

Nel complesso il lavoro a tempo indeterminato riguarda circa 15 milioni (formalmente anche il part time è indeterminato), mentre 7 milioni sono gli occupati a tempo (che diventano 12,4 se si aggiungono i dipendenti part time).
L’articolo 18 non c’entra nulla e non ha effetti se non nei talk show e nelle tribune dove si esercita la retorica politica.

Il problema italiano è aumentare il tasso di occupazione salito al 59%, tasso comunque molto basso rispetto all’Europa (dove la media è del 75%). Ma questo significa solo che il lavoro non c’è. O non viene creato in misura sufficiente (anche perché continua a pesare l’economia nera o grigia che il lavoro lo crea ma invisibile, irregolare o fuori legge).

Guardare al tema del lavoro con gli occhiali dell’articolo 18 non fa crescere la discussione e non aiuta a trovare i veri rimedi. Lavoro vuol dire solo una cosa: investimenti. Quindi sono gli investimenti, pubblici e privati, la priorità della politica economica. Decisive diventano quindi le misure di finanziamento diretto, ma anche quelle di contesto che facilitano l’attrazione di capitali (interni o esteri).

Sarebbe un modo per affrontare finalmente anche il tema della produttività totale dei fattori che in Italia ristagna da 30 anni. Se aumenta la produttività, il lavoro è più efficiente e crea il margine per redistribuire le risorse.

Perché semmai il lavoro va guardato con gli occhiali del salario. Esercizio che non usa più da qualche tempo, tanto che Mario Draghi più volte ha invitato le parti sociali a fare di più sul versante degli aumenti retributivi, perché da quella via passa anche la crescita controllata dell’inflazione buona che la Bce persegue come obiettivo statutario della sua politica monetaria.

Se il mercato del lavoro è composto da due eserciti (il posto fisso e i posti a tempo) ormai di pari entità, il modo per cambiare la percezione sociale delle priorità è quello di partire da un punto: il lavoro flessibile deve risultare più remunerato del lavoro a tempo indeterminato. Quindi non è scambiando diritti veri, presunti o virtuali che si modifica il contesto. Prima di pensare a come blindare i posti di lavoro con il filo spinato di certo giuslavorismo, sarebbe meglio pensare a come crearli quei posti. Che, come è evidente, ancora non ci sono.

(dal Sole 24 Ore - 9 gennaio 2020)

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