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Alcuni chiarimenti sulla "Commissione Segre"
Oltre la "vulgata mediatica"

articolo di Luca Ricolfi

Ha suscitato qualche inquietudine, anche fra alcuni parlamentari dell’opposizione di destra, il fatto che 98 senatori (tutti di centro-destra) non abbiano votato a favore della “Commissione Segre”, ovvero di una Commissione straordinaria “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo, e dell’istigazione all’odio e alla violenza”. Anch’io mi sono stupito un po’, conoscendo la passione dei parlamentari per le commissioni, e trovando strano che ci si debba dividere persino su principi così generali e ovvi. Possibile che ci siano senatori che difendono l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’odio e alla violenza?

Poi però mi sono ricordato di una cosa: il titolo di una legge, come il titolo di un articolo di giornale, spesso non corrisponde a quel che c’è scritto dentro. Meglio leggere tutto prima di esprimere un’opinione. Allora ho letto il testo istitutivo della Commissione, e il mio stupore è aumentato, ma capovolto di segno. Ora sono stupito che sia stato possibile mettere al voto un testo simile. Attenzione: ho detto mettere al voto, non approvare. Perché si può essere d’accordo o contrari a una proposta, ma si dovrebbe pretendere che la proposta sia chiara, ossia ben formulata nei suoi presupposti, nei suoi propositi e nei suoi limiti (e magari anche scritta in un buon italiano, come la nostra Costituzione).

Ebbene, questi requisiti sono drammaticamente assenti, quindi la proposta è ingiudicabile nel merito. Può essere usata come arma di lotta politica, ma non valutata politicamente. Provo a spiegare perché.

I presupposti. Un presupposto (noto, ma non dichiarato nel testo) è costituito dai messaggi d’odio, presumibilmente a sfondo antisemita, indirizzati quotidianamente alla senatrice Segre, come a decine di altri personaggi pubblici. Un secondo presupposto è la convinzione degli estensori del testo che “il fenomeno denunciato” (i messaggi d’odio sul web, sembra di capire) “è purtroppo in crescita in tutte le società avanzate”. Questo secondo presupposto è perlomeno mal definito, e a mia conoscenza non è supportato da alcuno studio empirico condotto sistematicamente nel tempo “in tutte le società avanzate”. Quel che è verosimile, semmai, è che un po’ tutti i generi di messaggi siano in crescita sul web per la ovvia ragione che aumenta molto velocemente il numero di utenti del web.
Quando dico tutti i generi di messaggi intendo quelli di odio e quelli di solidarietà, quelli ostili agli ebrei e quelli ostili all’occidente, quelli che fanno l’apologia del fascismo e quelli che fanno l’apologia dello Stato islamico. Quanto ai personaggi pubblici, credo ve ne siano parecchi, a destra (Matteo Salvini), a sinistra (Laura Boldrini), e persino al centro (Elsa Fornero), che hanno ricevuto, e continuano a ricevere, dosi non certo omeopatiche di ingiurie, specie se sono attivi sul web.

I propositi. Che cosa dovrebbe fare la Commissione straordinaria? Non è chiarissimo. A parte studi, viaggi, scambi di informazioni, missioni all’estero, report annuali, la commissione ha “compiti di iniziativa per l’indirizzo e il controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” (fino alla richiesta di rimozione dal web di contenuti che la Commissione giudica manifestazioni di odio, intolleranza o discriminazione).

I limiti. Il problema è che nel testo non vengono mai circoscritti e definiti in modo chiaro i comportamenti che si ritengono inammissibili, e dunque potenzialmente segnalabili, stigmatizzabili, sanzionabili, o addirittura perseguibili penalmente. Se si legge attentamente tutto il testo, si scopre un’incredibile insalata di comportamenti che la Commissione sembra far rientrare nel proprio campo di interesse e di sorveglianza. In alcuni punti, sembra che il bersaglio sia l’odio in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto ideologico o politico, fino a includere il cyberbullismo nelle scuole. In altri punti del testo nel mirino finisce “l’istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali” ma limitatamente al caso in cui l’odio è “sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre condizioni fisiche o psichiche”.
Altrove il testo si allarga ancora un po’ e parla di hate speech e di “tutte le manifestazioni di odio nei confronti di singoli o comunità”.
Infine, per quanto riguarda le ideologie, il bersaglio è molto ampio, con qualche omissione: rientrano il razzismo, l’antisemitismo, l’antigitanismo, l’antislamismo, il “nazionalismo aggressivo” (chi stabilirà se il nazionalismo è aggressivo o mite?) e persino l’etnocentrismo; ma non rientrano l’anticristianesimo e l’antioccidentalismo, topoi tipici della propaganda islamica radicale. Lo stesso strabismo riguarda la denuncia del negazionismo: giustamente stigmatizzato quando è negazione della Shoah, dei genocidi, dei crimini di guerra o contro l’umanità, ma sorprendentemente mai riferito ai Gulag e alle altre tragedie del comunismo (una dimenticanza particolarmente grave in un testo che si sforza di avere un respiro europeo, in un’Europa nella quale i crimini del comunismo sono ancora vivi nella memoria di tanti popoli).

Le perle. Parlando di hate speech, e poggiando sull’autorità del “Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, si arriva a includere nel raggio di azione della commissione “gli abusi, le molestie, gli epiteti, gli stereotipi e le ingiurie che stigmatizzano e insultano”. Gli stereotipi? Chi stabilirà che un’etichetta appioppata a qualcuno è uno stereotipo, e come tale perseguibile o stigmatizzabile? Non sanno gli estensori del testo che la vita sociale si nutre di stereotipi, e che moltissimi stereotipi sono semplicemente la cristallizzazione di esperienze individuali e collettive?

Che dire, alla fine?
Siamo di fronte a un testo le cui sacrosante e condivisibili intenzioni, combattere l’odio e l’istigazione alla violenza, convivono con due limiti che, almeno nella tradizione liberale, appaiono difficili da accettare. Il primo è la completa mancanza di consapevolezza di quanto delicato sia l’equilibrio fra il diritto a non essere insultati e offesi, e il diritto alla libera manifestazione delle opinioni, specie in campo politico. Il secondo limite è l’incapacità di vedere che, ove si decida di percorrere la rischiosa strada di tutto monitorare, controllare, sorvegliare e punire, anche nei casi in cui l’aggressività è confinata al piano verbale, allora occorre essere veramente neutrali, imparziali, universali: il diritto della Boldrini di non subire una campagna d’odio sul web vale quanto l’analogo diritto di Salvini, che di insulti – presumibilmente – ne riceve anche di più, e di assai più organizzati.
Qualcuno ha dimenticato la copertina dell’Espresso (Uomini e no) in cui il leader della Lega veniva presentato come un non-uomo? Se è impossibile, nell’era di internet, impedire a legioni di imbecilli frustrati di sfogare il loro odio e le loro antipatie sul web, potremmo almeno cercare, come sistema dei media, di accordare a tutti il diritto di essere trattati come esseri umani.

(da www.fondazionehume.it)

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