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Quando le tasse diventano un tabù

di Massimo Bordignon

In Italia si parla di tasse solo per dire che vanno tagliate per tutti, sempre e comunque. Ridurre gradualmente la pressione fiscale è un obiettivo ragionevole. Ma la ricerca del consenso impedisce una necessaria riforma complessiva del sistema tributario.

Tasse e consenso

Il surreale dibattito sulle tasse che ha seguito la presentazione della Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) pone interrogativi preoccupanti, che vanno ben al di là della legge di bilancio per il 2020. È solo un problema di politici demagogici alla ricerca di consensi immediati o è proprio vero che ogni riflessione razionale sul sistema tributario in Italia sia ormai diventata impossibile? Davvero, in termini di consenso, affermare che le aliquote Iva non si toccano mai e in nessun caso paga di più della affermazione opposta che, per esempio, si può aumentare l’Iva su alcuni beni per finanziare la riduzione del deficit o delle tasse su altri beni o cespiti?

Naturalmente, l’obiettivo di diminuire gradualmente la pressione fiscale in un quadro di controllo rigoroso dei conti pubblici è più che ragionevole, e i costi e i benefici di ogni intervento sul sistema tributario devono essere sempre attentamente calcolati. Ma qui sembra che ormai nessun politico possa permettersi di menzionare in pubblico una qualunque tassa, si tratti dell’Irpef, dell’Iva o di quella sulle merendine, senza aggiungere immediatamente che non può essere aumentata ma anzi deve essere tagliata. Solo misteriosi interventi su basi imponibili incomprensibili, tipo l’indeducibilità degli interessi passivi per le odiate banche, sono politicamente accettabili, alimentando l’illusione le più alte tasse sulle istituzioni finanziarie non siano poi comunque alla lunga trasferite sulla clientela.

Ma se il terrore di perdere consenso nell’immediato vincola ogni possibilità d’azione della politica sul sistema tributario, cosicché di tasse si può parlare solo per ridurle, i costi per l’efficienza del sistema sono pesantissimi. Per esempio, nonostante decenni di discussione, non riusciamo a rivedere il catasto, benché sia ovviamente del tutto obsoleto e iniquo, perché una volta rivisto qualcuno pagherebbe certamente di più, anche se qualcun altro pagherebbe di meno. Non riusciamo ad agire sul sistema di deduzioni e detrazioni, nemmeno quelle più assurde e controproducenti sul piano economico, perché le categorie interessate le difendono a tutti i costi e c’è sempre qualche politico disposto a farsene carico per ottenerne il consenso. Non possiamo rivedere la struttura delle aliquote dell’Iva, nonostante ci siano ovvie assurdità nella definizione dei beni e servizi soggetti alle diverse aliquote, perché qualcuno ci rimetterebbe anche se qualcun altro ci guadagnerebbe e così via.

Ma il sistema tributario va riformato

Il problema è ancora più serio perché, al contrario, il sistema tributario italiano richiederebbe un’urgente riforma complessiva. Da una parte, gli interventi disparati che si sono susseguiti nel corso degli anni ne hanno distrutto ogni residua razionalità. Per esempio, l’Irpef, in teoria un’imposta progressiva su tutti i redditi, a forza di sottrarvi cespiti vari per accontentare le varie clientele, è diventata un’imposta sui soli redditi da lavoro, e di fatto, per la diffusa evasione degli altri redditi, un’imposta sui soli redditi da lavoro dipendente e assimilati. È difficile giustificare la forte progressività esistente su una base imponibile così ridotta. Dall’altro, modifiche strutturali nel funzionamento dell’economia hanno cambiato radicalmente lo scenario sulla cui base il sistema tributario era stato inizialmente ideato. In Italia come altrove, si è ridotta la quota dei redditi da lavoro sul totale dei redditi, il che rende difficile sostenere un sistema di welfare che si finanzi prevalentemente con i contributi sociali. Per non parlare della globalizzazione, della crescente separazione tra il momento della produzione e del consumo, delle pratiche elusive delle imprese multinazionali, delle nuove imprese del web che richiedono di ripensare le forme tradizionali di tassazione dei redditi societari e di capitale.

Rifiutarsi di discutere di questi temi per paura di perdere consenso immiserisce il dibattito pubblico e riduce gli spazi di azione per la politica economica. Spiega probabilmente anche l’improvviso favore che le varie ipotesi di “tasse piatte” hanno avuto nel dibattito politico interno. Ma come riconoscono i fautori più avvertiti, le tasse piatte sono alla lunga sostenibili solo al prezzo di una sostanziale riduzione del sistema di welfare. È dubbio che la maggior parte dei cittadini se ne avvantaggerebbe.

(da www.lavoce.info)

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