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Vincolo di mandato: gli eletti e le idee confuse

di Ernesto Galli della Loggia

La disposizione che vieta il legame garantisce la libertà dei parlamentari, ma serve principalmente a sancire la sovranità degli elettori

La disposizione costituzionale che – in Italia come in quasi tutte le altre democrazie rappresentative – vieta che i parlamentari siano sottoposti al vincolo di mandato garantisce sì la libertà d’opinione dei suddetti parlamentari (di fatto, dunque, non ponendo ostacoli a che essi possano tranquillamente passare da un partito all’altro, da uno schieramento all’altro), ma in realtà la sua vera ragion d’essere è completamente diversa. Quella disposizione infatti serve principalmente a sancire la sovranità degli elettori, a consacrare il principio, ribadito anche dalla nostra Costituzione che «la sovranità appartiene al popolo». È la sovranità popolare insomma il vero motivo del divieto che oggi suscita tanto scandalo. Da questo punto di vista è davvero paradossale che a essere soprattutto scandalizzati di quel divieto, scagliandosi con parole di fuoco contro di esso, siano proprio coloro che sostenendo l’opportunità della democrazia diretta si presentano come i massimi difensori della sovranità popolare. Per spiegare il divieto di mandato imperativo per i parlamentari bisogna risalire al passato. Bisogna addentrarsi un po’ nella storia: quella storia che da che mondo è mondo è l’altra faccia della politica e la crescente ignoranza della quale è causa non ultima della crisi che da noi come altrove attraversa la politica stessa. Quando alla fine del Settecento i rivoluzionari francesi decisero di farla finita con la monarchia si trovarono di fronte a un problema a suo modo drammatico. Fino allora era stato un dato di fatto indiscutibile che il depositario della sovranità, del principio ultimo della legittimità e del comando politico della collettività, fosse il re: il sovrano per l’appunto. Depositario simbolico ma al tempo stesso ben concreto, trattandosi di una persona fisica e perciò in grado di esprimere senza problemi la propria volontà. Una volta però che una tale figura era cancellata e che si decideva che il nuovo sovrano sarebbe stata la «nazione» e cioè il «popolo» (e già questo passaggio implica più di un problema), in qual modo la suddetta sovranità avrebbe mai potuto esprimersi?

Esclusa in quanto del tutto irrealistica la possibilità di un continuo, capillare, quotidiano ricorso alle urne per far decidere di ogni cosa al «popolo», vale a dire agli elettori, non restava che pensare a un’assemblea di eletti dal popolo stesso, a un Parlamento. La sovranità popolare dunque espressa da un Parlamento. Il guaio è che il Parlamento non esiste come un unicum, è composto necessariamente di individui, e qualsiasi Parlamento, di qualsiasi cosa debba decidere, si divide sempre in una maggioranza e una minoranza. Ovvia a questo punto la domanda: chi esprime in tal caso la sovranità? La maggioranza o la minoranza? E ancora: si può mai pensare una sovranità che si divide? Se in caso di divisione è alla maggioranza che, puta caso, viene riconosciuta la qualifica di depositaria della sovranità, allora gli altri membri del Parlamento rimasti in minoranza, a quel punto che cosa sono? Come possono essere considerati ancora titolari della sovranità?

La soluzione a suo modo logica di questi problemi – non a caso quella storicamente adottata – è stata quella di considerare ogni singolo eletto dal popolo, ogni parlamentare, semplicemente in quanto tale il rappresentante della nazione-popolo nel suo insieme, e quindi il depositario della sua intera volontà sovrana. Sicché quando il Parlamento si divide in una maggioranza e in una minoranza questo non significa affatto una vera divisione, una frantumazione della sovranità, ma semplicemente, diciamo così, una sua manifestazione articolata. È solo per precisare definitivamente questa che si adotta il principio di maggioranza.

È una pura finzione, si capisce. Ma è una finzione che serve a mantenere in piedi un principio fondamentale (il principio della sovranità popolare) evitando che tale principio possa essere manipolato a fini politici di parte, ad esempio decretando che la sovranità popolare sia rappresentata esclusivamente dalla maggioranza parlamentare. Con le conseguenze che è facile immaginare. È una finzione che ha peraltro, una conseguenza importantissima. Vale a dire che ogni singolo deputato, titolare dell’intera sovranità, non può in alcun modo essere considerato il rappresentante solo di una parte del popolo, solo della parte che lo ha eletto. Titolare simbolicamente dell’insieme indiviso della sovranità, egli deve necessariamente rappresentare, altrettanto simbolicamente, tutto il popolo, il corpo elettorale nella sua interezza.

Sta in questo complesso insieme di questioni la ragione per cui nelle democrazie rappresentative europee continentali esiste il divieto del vincolo di mandato. (Diverso è il discorso per le democrazie anglo-sassoni che non essendo state originate da una rivoluzione antimonarchica non si sono mai poste un analogo problema di attribuzione della sovranità e ad esempio possono tranquillamente adottare la figura del recall, cioè della destituzione del deputato «infedele»). Infatti, se si vuole mantenere l’insieme delle finzioni di cui sopra, la loro fondamentalissima ragion d’essere rappresentata dalla sovranità popolare, ne segue che i parlamentari non devono/non possono essere dei delegati dei loro elettori. Non possono/non devono essere dei semplici incaricati di riprodurne meccanicamente le opinioni, vincolati per l’appunto a un mandato ricevuto sulla base di una presunta identità di opinioni talché se viene meno tale identità perché il parlamentare ha cambiato idea o schieramento allora esso debba essere obbligato a dimettersi.

Abolire il divieto del vincolo di mandato, insomma, potrà pure avere l’effetto positivo di contrastare il trasformismo. Ma al prezzo di una conseguenza ben più grave: di infliggere un colpo mortale alla democrazia rappresentativa nel suo fondamento costitutivo rappresentato dalla sovranità popolare. Coloro che credono davvero nel primato di tale sovranità e hanno una quantità di sale in zucca sufficiente per crederci con un minimo di cognizione di causa ci pensino dunque due volte, e magari anche tre, prima di parlare a vanvera additando rimedi demagogici sicuramente peggiori del male che vorrebbero curare.

(dal Corriere della Sera - 27 settembre 2019)

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