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Commento introduttivo

Il tema della Legge Elettorale è ancora di attualità nell'agenda politica italiana. Lo è a seguito del dibattito sviluppatosi fra i partiti di maggioranza, lo è altresì per le iniziative promesse e già avviate dalla Lega, finalizzate alla richiesta del referendum abrogativo della quota proporzionale della legge attualmente vigente. Leggo che già quattro Consigli Regionali hanno approvato la richiesta; non sarà certo problematico raggiungere il numero dei cinque necessari. Leggo altresì che il prossimo lunedì (30 settembre) sarà depositato il quesito in Cassazione.

Dunque, salvo il caso della dichiarazione di inammissibilità da parte della Cassazione, l'elettorato sarà nuovamente chiamato - nella prossima primavera - ad esprimersi per modificare la Legge Elettorale, come già altre volte è avvenuto, agli inizi degli anni '90 con successo, dopo con risultato negativo, per mancato raggiungimento del quorum.

L'articolo di Panebianco che sottopongo ai lettori di Fucinaidee mi riporta alla temperie politica del 1993 quando, con un referendum che vide peraltro un'altissima partecipazione al voto, venne cancellata - con una maggioranza bulgara - la precedente legge proporzionale, aprendo così la stagione in cui si riponeva nel maggioritario la speranza di una nuova democrazia governante. Speranza che è andata delusa, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, sia per le ragioni politiche che per quelle di architettura costituzionale, peraltro ben descritte nel testo di Panebianco.

Infatti, qualsiasi impostazione della sola legge elettorale, se non inserita in un più ampio disegno di riforma dell'architettura dello stato e se non accompagnata dalle necessarie condizioni politiche, non è sufficiente per risolvere una anomalia italiana, cioè quella della difficile governabilità, già evidente agli albori della storia repubblicana, e osteggiata da ampi settori della nostra politica e società, che in un contesto di vera governabilità vedrebbero spuntate le loro armi di ricatto e/o interdizione.

Un fronte conservatore questo che è riuscito, per sfortuna del nostro Paese, a bloccare - in occasione del referendum del 2016 - la riforma costituzionale e, se pur in modo indiretto, la legge elettorale conosciuta con il nome di Italicum che, globalmente considerate, costituivano strumenti capaci di imprimere una forte spinta nel senso della governabilità.

Dato atto quindi che la Legge Elettorale non è neutra rispetto allo scenario politico, cosa dire degli attuali sussulti?
Qualora si andasse incontro ad una stagione di bipolarizzazione fra uno schieramento sovranista ed uno Pd-M5S, con un Pd che dà segnali di ingrillimento, c'è da auspicare che si venga a consolidare una forte e seria forza di centro; una forza che, è da auspicare per il bene del Paese, sappia sottrarsi alla logica del partito-persona, in favore di un vero radicamento territoriale.
Un sistema proporzionale, accompagnato da un salto di qualità della politica che sappia dare nuova dignità al concetto di mediazione, peraltro troppo frettolosamente confusa con l'inciucio ed il bieco compromesso, potrebbe favorire questo disegno.

Questo mi sembra il vero argomento di riflessione; per il resto, da Cavour in poi, abbiamo sperimentato tutti i sistemi elettorali possibili, e l'Italia non ha mai vissuto stagioni di autentica democrazia governante!

Paolo Razzuoli

Riforme elettorali, la solita memoria corta

di Angelo Panebianco

Uno sconsolante dejà vu. È vero che gli elettori, quando si tratta di certe faccende, hanno la memoria corta. Ma la classe dirigente non dovrebbe soffrire della stessa malattia. In vista di una ennesima, possibile riforma elettorale, si torna a parlare di virtù e difetti dei vari sistemi (maggioritario a un turno o due turni, proporzionale puro, eccetera) con spensierata ignoranza, come se non avessimo alle spalle trenta e passa anni di discussioni e di esperimenti. Facciamo il punto su quanto la storia dovrebbe averci insegnato.

Primo: chiunque dica che il tale o tal altro sistema elettorale è in grado di dare stabilità alla democrazia non sa di cosa sta parlando. La stabilità di una democrazia dipende da tre cose. Il radicamento sociale dei partiti è una di esse. Così come lo sono le tendenze in atto, in una certa fase storica, alla radicalizzazione degli elettorati o alla de-radicalizzazione. Così come lo è, infine, l’assetto istituzionale complessivo (di cui la legge elettorale è solo un frammento, ancorché importante). In questa fase storica, non solo in Italia, si assiste a un indebolimento — ma più accentuato in alcune democrazie — del radicamento sociale dei partiti. Inoltre, a causa (forse) della lunga crisi economica, viviamo in un periodo di forte radicalizzazione.

Ciò può spiegare quanto accade in Paesi — dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna alla Spagna — con assetti istituzionali diversi ma con una cosa in comune: sono costruiti in modo da favorire stabilità politica e capacità di governo della democrazia. Ciò significa che se e quando la tendenza alla polarizzazione degli elettorati si esaurirà, quelle democrazie torneranno probabilmente ad essere stabili. È escluso che in Italia ciò sia possibile. Perché il nostro assetto istituzionale è costruito in modo da garantire che, in nessun caso, l’Italia possa essere una vera democrazia governante. La «costituzione più bella del mondo» (sic) generò un regime assembleare con governi istituzionalmente deboli. Altro che «pesi e contrappesi». Crearono contrappesi di ogni tipo (due camere con uguali poteri, un primo ministro senza reale possibilità di controllare i ministri, eccetera). Ma «si dimenticarono» di fabbricare i pesi. Nonostante la stabilità politica di fondo dovuta alla presenza di un partito dominante, reso inamovibile dalla Guerra fredda, nel periodo 1948- 1993, l’Italia soffrì di continua instabilità governativa, governi deboli e (salvo qualche eccezione) di brevissima durata. Non fu un caso. Era l’inevitabile conseguenza di quel particolare assetto istituzionale.

Secondo: quando trenta anni fa, soprattutto a causa della fine della Guerra fredda, le circostanze favorirono un cambiamento in senso maggioritario della legge elettorale, i fautori di quella riforma (fra i quali c’era anche chi scrive) non pensavano che ciò sarebbe bastato a fare dell’Italia un’autentica democrazia governante (nella quale il governo di legislatura è la regola mentre la sostituzione di un governo all’altro senza elezioni, pur sempre possibile, è l’eccezione). Pensavamo (speravamo) che quella riforma fosse solo il primo passo: l’obiettivo era cambiare la Costituzione, trasformare il regime assembleare, voluto dai costituenti per loro rispettabilissime ragioni, in una democrazia governante, per l’appunto. Sono stati tanti gli sforzi inutili. Occorre prendere atto che quel tentativo è definitivamente fallito. Il risultato del referendum costituzionale del 2016 (la schiacciante vittoria del conservatorismo costituzionale) ha posto la pietra tombale sulla possibilità di cambiare la Costituzione. Se ne riparlerà, forse, fra venti o trenta anni. Ma ciò significa anche che quale che sia la legge elettorale in vigore l’instabilità governativa cronica non potrà essere eliminata.

Terzo: ridimensionate le aspettative rispetto alla legge elettorale, data la particolare condizione italiana, si può solo dire quanto segue. Ci sono inconvenienti più o meno gravi, anche se fra loro diversi, sia con il sistema maggioritario sia con il proporzionale. Il maggioritario favorisce una competizione elettorale bipolare, ossia fra due coalizioni. Ma, come l’esperienza italiana insegna, è improbabile che chi esce vincitore dalle urne possa governare per un’intera legislatura. Le coalizioni elettorali che si formano sono troppo eterogenee al loro interno per generare governi stabili. E il contesto istituzionale in cui opererà il governo è fatto per esaltare le divisioni entro le maggioranze, per alimentare instabilità. Il vero vantaggio è comunque che, in un gioco bipolare, normalmente, gli elettori premiano le componenti meno estremiste delle due coalizioni. I cui leader, tuttavia, devono subire il ricatto dei gruppi minori.

Se vige il sistema proporzionale gli inconvenienti sono di altro tipo. Da un lato, in regime di proporzionale, è necessario che si costituisca un «centro» abbastanza forte da dare un minimo di stabilità alla democrazia. Altrimenti essa finirà in balia degli estremisti di ogni colore arrivando presto a un punto di rottura. Dall’altro lato, un centro tendenzialmente inamovibile (sempre al governo, ora con la destra ora con la sinistra) non è fatto per garantire al Paese, quanto meno nel lungo periodo, un buon governo. In ogni caso, nulla può essere peggio del sistema elettorale (misto) oggi in vigore: ha i difetti sia del proporzionale sia del maggioritario e nessun pregio.

Chiudo con una notazione su un aspetto più contingente. La scissione di Renzi sembra avere creato, per il Pd e per Conte, una specie di Comma 22. Se verrà accelerata, in concomitanza con la prevista riduzione dei parlamentari, la riforma elettorale proporzionale, ciò darà immediatamente grande forza politica a Renzi come a chiunque voglia ricostituire il centro. D’altra parte, una riduzione dei parlamentari senza proporzionale favorirebbe Salvini (sovra- rappresenterebbe elettoralmente il partito più forte). Se, infine, il Pd e Conte fossero tentati di rinviare la riduzione dei parlamentari ciò aprirebbe un conflitto con i 5 Stelle che su quel provvedimento hanno investito molto della loro identità di movimento antiparlamentare. Un bel trilemma. Sarebbe anche uno spettacolo divertente. Se non riguardasse proprio noi.

(dal Corriere della Sera - 21 settembre 2019)

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