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Prima Trump, ora Johnson: ecco perché stavolta rischiamo davvero la fine della democrazia liberale

di Francesco Grillo

Sovranismi e altri disastri

Non è la prima volta che la democrazia liberale si trova a dover lottare per la propria sopravvivenza. Nel secolo scorso, questo sistema politico che è, probabilmente, l’idea politica di maggior successo della Storia, è riuscito per due volte a evitare la propria estinzione, resistendo alla sfida mortale che gli fu mossa da “tirannie mostruose” (come le definì Winston Churchill nel suo discorso più famoso). Tuttavia, la novità è che, stavolta, i nemici di un sistema politico che ha accompagnato un progresso che mai prima fu così rapido, siamo noi stessi ed il nostro esserci abituati all’idea dell’irreversibilità di un benessere che è, invece, fragile. La novità è che è nelle Capitali dei Paesi che difesero e - con minore o maggior successo - cercarono di “esportare” quell’idea, che le istituzioni della democrazia parlamentare stanno vivendo una crisi di fiducia e di forme che può svuotarle.

È questo che rende questa battaglia, persino, più infida di quella che l’Occidente vinse trent’anni fa, a Berlino, quando si illuse di essere arrivato alla fine della storia. E, anzi, forse, è proprio quell’illusione ad essere all’inizio del declino che, oggi, porta Boris Johnson a chiudere il Parlamento (che, per la verità, non aveva dato grandi dimostrazioni di efficienza e responsabilità negli ultimi mesi di dibattito sulla Brexit) e Donald Trump a bombardare a colpi di tweet il sistema di garanzie (costituzionali) e organizzazioni internazionali (che, in effetti, da tempo, dimostrano di non riuscire a governare una globalizzazione così complicata) che il suo stesso Paese aveva disegnato come custodi dell’ordine che sta per scomparire. Non è esterno, dunque, il peggior nemico delle democrazie liberali o, perlomeno, non si vedono, oggi, competitori per l’egemonia politica così attrezzati – sul piano di una teoria del mondo e dei mezzi per realizzarla - quanto lo fossero, ad esempio, i tedeschi del reich negli anni Trenta o i sovietici del Sacro Proletario Impero quando sembravano poter vincere.

Non è, oggi, la Cina l’avversario peggiore della democrazia, anche se quel Paese rischia di costringerci a rivedere le teorie che davamo per scontate quando si ragiona della relazione tra partecipazione, innovazione e crescita. Non lo è perché è la leadership stessa della Cina a non volersi proporre come modello. E la minaccia più grave non viene, neppure, dalla Russia che, pure, ha, ancora, un numero di testate nucleari superiore agli Stati Uniti o dall’IRAN che può far saltare per aria gli equilibri delicati del Medio Oriente: la forza di queste potenze regionali è, quasi, solo militare e di controllo su materie prime dalle quali l’Occidente dipenderà sempre di meno. Non è sul piano della geopolitica che si collocano i più gravi rischi per le democrazie liberali; ma, neppure, su quello che è la competizione politica interna.

Gli stessi avversari – populisti o sovranisti – dell’ordine liberale sono, oggi, molto meno organizzati (come ha dimostrato la Lega in Italia nelle ultime settimane o Syriza negli ultimi anni) di quanto non lo fossero i Partiti rivoluzionari che nell’Ottocento “agitavano i sonni delle cancellerie europee”. L’unica loro forza, l’unico vero collante che la debolezza dell'establishment che ha perso, progressivamente, capacità di dirigere. E a mettere in crisi le democrazie liberali, come ammette, persino, il settimanale The Economist di questa settimana, non sono ORBAN in Ungheria o la LE PEN in Francia, ma ciò che gli inglesi chiamano “COMPLACENCY”: la pigrizia intellettuale di liberisti che sono diventati tanto dogmatici dall’aver dimenticato che qualsiasi ideologia, qualsiasi istituzione, come qualsiasi costruzione umana, sopravvive solo se si adatta a contesti nuovi. Adattarsi a contesti nuovi. Il paradosso è che la democrazia parlamentare che vinse per essere capace di adattarsi meglio alle grandi rivoluzioni industriali del passato, oggi rischia – di fronte alla mutazione innescata da Internet – l’obsolescenza tecnologica.

Come fu per l’invenzione della stampa, le tecnologie che oggi stanno producendo una straordinaria riallocazione di informazione, stanno anche, altrettanto massicciamente, ridistribuendo potere, per il semplice motivo che al controllo dell’informazione, la distribuzione del potere è direttamente legata. Le istituzioni - che sono la forma attraverso il quale il potere si acquisisce, si limita, si esercita - dovrebbero riorganizzarsi profondamente e ciò non sta avvenendo. Fermi come siamo tra chi agita “piattaforme” e chi si attacca alla “costituzione” (che, pure, ebbe grandi meriti) concepita quando non c’era, neppure, la televisione. Per adattarci alla trasformazione che è, già, in atto, dovremmo studiare. E sperimentare. Con coraggio ed entusiasmo. Lo stesso che, in fondo, portò Keynes e Roosevelt a immaginare come imbrigliare gli spiriti animali dell’innovazione per metterli al servizio di una società complessa o WILLIAM BEVERIDGE a concepire la necessità di uno “Stato Sociale”.

Adattare la democrazia a una rivoluzione che cambierà tutto. Guardando avanti e senza far inghiottire tutto il dibattito in battaglie di retroguardia tra chi si limita a difendere uno “status quo” sorpassato e chi vorrebbe disintegrarlo senza avere una proposta alternativa. È questa la sfida decisiva. Più ancora della somma delle tante crisi di governo – non solo l’Italia, ma persino la Spagna ne vive una da mesi – che di quella sfida sono solo rappresentazioni su scala nazionale. Se la perdessimo, stavolta, non potrebbero salvarci neppure gli americani con i loro chewing gum o i colonnelli inglesi che invece preferivano lunghi sigari importati da Cuba.

(da www.linchiesta.it - 31 agosto 2019)

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