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Il tramonto dell’Occidente: arriva una nuova crisi e la colpa è tutta della politica

di Stefano Cingolani

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«Noi siamo pronti a fare quel che è necessario per sostenere l’espansione, ma la politica commerciale rappresenta una nuova sfida, è un affare che riguarda il Congresso e l’amministrazione, non la banca centrale». Jerome Powell, aprendo ieri l’annuale incontro della Federal Reserve a Jackson Hole, è stato chiaro. Se arriverà una recessione, Donald Trump dovrà prendersela con se stesso non con la Federal Reserve. Mentre parlava, le agenzie di stampa battevano la notizia che la Cina aveva deciso, come ritorsione, di colpire prodotti americani per 75 miliardi di dollari. Il presidente della Fed, dunque, ha detto “il re è nudo”. La guerra dei dazi è il maggior pericolo che incombe sulla economia internazionale. Ma attenzione, non c’è solo questo. Le nubi che s’addensano all’orizzonte sono in gran parte nubi politiche e se arriverà un nuovo crac, sarà a tutti gli effetti una crisi politica non economica.

Jackson Hole chiama Barritz, dalle montagne del Wyoming andiamo dritti dritti sulle sponde francesi dell’Oceano Atlantico dove si riunisce il G7, il gruppo dei sette paesi occidentali più industrializzati che vede attorno al tavolo otto governi deboli e impotenti. Sì, otto, perché il padrone di casa Emmanuel Macron ha invitato anche lo spagnolo Pedro Sanchez che non sappiamo per quanto tempo ancora sarà primo ministro.
Tralasciamo lo strapuntino dell’Unione Europea perché non si capisce ancora quale sarà la nuova linea politica (se ci sarà) della commissione e del consiglio. Dall’anno prossimo forse rientrerà anche Vladimir Putin e il G8 tornerà ad essere il salotto delle potenze mondiali, mettendo in cantina il G20 dove la Cina la farà da padrona. Un assetto che s’annuncia foriero di nuovi pericoli. Ma questo riguarda il 2020, intanto il 2019 è all’insegna della ingovernabilità dell’Occidente. Ciò sembra paradossale mentre lo “spirito del tempo” proclama, contro la “dittatura dei mercati”, un supposto “primato della politica”. La realtà è che la politique d’abord, il neo-nazionalismo, il sovranismo hanno prodotto finora solo un deficit di governance che sta incubando la crisi prossima ventura.

Cominciamo, naturalmente, da Trump che si sta incartando. La guerra commerciale contro la Cina e contro l’Unione europea ha messo in moto una spirale perversa. Powell gliel’ha cantata. Il presidente americano non capisce più che fare: non può tornare indietro perché su questa sfida si gioca la rielezione l’anno prossimo, ma se va avanti finisce contro un muro. Se la prende con la Fed, però la banca centrale ha le polveri bagnate, pompare altra moneta non serve a riaprire gli scambi internazionali né può mettere in sicurezza l’economia interna. Trump vorrebbe varare nuovi stimoli fiscali, li ha anche annunciati, poi il giorno dopo ha fatto marcia indietro. I suoi esperti sono divisi sul da farsi, il Congresso affila le armi, i democratici caricano le spingarde.
A Washington ci vorrebbe qualcuno forte e coraggioso abbastanza da staccare la spina nell’interesse generale, ma non c’è. Ognuno pensa solo a trarre vantaggio dalle debolezze altrui.

Angela Merkel si presenta con una economia in netta frenata. Il colosso economico europeo non avrà i piedi d’argilla, ma certo mostra visibili crepe nelle sue colonne portanti. Una stagnazione se non proprio una recessione, indotta dal neo-protezionismo, mette a nudo le debolezze di un modello che va riformato. Alla crisi del 2008 la Germania ha reagito spingendo al massimo sulle esportazioni e proteggendo le banche anche con iniezioni massicce di denaro pubblico. Per un po’ ha funzionato, adesso il motore s’è inceppato. L’enorme surplus con l’estero (pari all8% del pil) e il pareggio del bilancio pubblico hanno represso la domanda interna e rinviato investimenti pubblici fondamentali. La stabilità è diventata una trappola. Quanto alle banche un tempo pilastro del Modelle Deutschland, oggi sono il ventre molle della Germania. I salvataggi hanno rinviato le necessarie e dolorose ristrutturazioni, come dimostra la vicenda della Deutsche Bank. Olaf Scholz, il ministro delle finanze, socialdemocratico, annuncia che potrebbe mettere a disposizione 50 miliardi di euro se le cose peggioreranno, ma il paese ha bisogno di riforme, non di spesa pubblica. E le riforme costano politicamente.

Ne sa qualcosa Emmanuel Macron. Dove sono finite le grandi promesse? Sotto i talloni dei sindacati, tra i fischietti dei gilet gialli, dietro la propaganda di Marine Le Pen? Il presidente francese ha il merito di aver alzato una diga in Europa contro il nazional-populismo, ma lo ha fatto cambiando strategia: dall’attacco alle incrostazioni di una élite chiusa e autoreferenziale alla difesa della exception française. Aver abolito l’Ena è una scelta demagogica e sbagliata.

Quanto a Boris il bullo detto Johnson, immagine buffa del vecchio establishment, che può permettersi di essere maleducato e mettere i piedi sul tavolino nel salotto dell’Eliseo solo perché si è fatto frustare il fondo schiena a Eton, rischia di essere travolto dalla Brexit che ha devastato l’intero sistema politico britannico un tempo modello di alternanza e stabilità, delizia di tutti i fan del maggioritario e del premierato, di governi efficienti e parlamenti autorevoli. La Brexit, dimostrazione in corpore vili che nessuno è un’isola, nemmeno la Gran Bretagna e il sovranismo è una pericolosa illusione.

A Biarritz arriva un Giappone vecchio, assediato e impaurito. Il primo ministro Shinzo Abe è impegnato in un duello con la Corea, quella del sud non quella del nord, accusata di essere sleale politicamente (è in ballo lo scambio di intelligence) ed economicamente (fa concorrenza ormai quasi su tutto). Insomma, Abe fa il piccolo Trump, ma è il ruggito del topo. Guida ormai da sette anni un paese ricco, satollo, ma politicamente debole e militarmente esposto di fronte alle nuove potenze dell’Estremo oriente e agli antichi nemici, Cina e Russia.

Il leader canadese, il bel Justin Trudeau, quasi non si parla con Trump. Baluardo liberal-democratico in Nord America è il bersaglio dell’arroganza economica e politica del potente vicino a stelle e strisce. Quattro anni di governo hanno logorato anche lui. Un processo per corruzione coinvolge la SNC-Lavalin, una società di ingegneria del Québec che secondo i giornali canadesi era considerata strategica dal governo e che ha vecchi rapporti di amicizia con il Partito Liberale di Trudeau. Il primo ministro avrebbe fatto pressioni per insabbiare tutto e lo scandalo, secondo la stampa canadese, potrebbe essergli fatale.

E l’Italia? A Biarritz si presenta con Giuseppe Conte, capo dimissionario di un governo che si è volatilizzato, con una maggioranza che potrebbe cambiare colore, da giallo-verde a giallo-rossa, una economia ferma, un paese malmostoso e sbandato. Se i dazi di Trump sono la polveriera geopolitica che può far saltare l’economia mondiale, l’instabilità italiana può diventare la seconda miccia, dopo la Brexit, che può far deflagrare l’Europa.

Irrompe intanto il riscaldamento climatico che Macron ha messo all’ordine del giorno, scoppia l’immenso incendio nella foresta amazzonica con il presidente Jair Bolsonaro che accusa di complotto le ong, quasi fosse un altro Matteo Salvini.
Una babele di lingue, una paurosa mancanza di idee, un vuoto di leadership. È la politica, bellezza. Ma se il primato della politica è questo, ridateci il capitalismo selvaggio.

(da www.linchiesta.it - 24 agosto 2019)

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