logo Fucinaidee

Breve commento introduttivo

Credo non possano sussistere dubbi sul fatto che il dissesto ambientale ed i mutamenti climatici costituiscano la più grave emergenza del nostro tempo. Affrontarla seriamente è la più impegnativa sfida a cui è chiamata l'umanità. Una sfida che se non verrà affrontata con la dovuta consapevolezza potrà condurre a difficoltà eccezionali per la vita sul nostro pianeta, così come noi la conosciamo.
Ma proprio dalla grandiosità della sfida deriva, consequenzialmente, la complessità degli strumenti da mettere in campo per poterla affrontare con qualche speranza di successo.
Non ci si può certo illudere che basti qualche corteo, o qualche iniziativa di una brillante adolescente per trovare un percorso utile. Così come non si può far finta di non vedere la solita ipocrisia di oggi: tutti sono ambientalisti, salvo poi non immaginare nemmeno lontanamente di rinunciare al proprio stile di vita. Solo un esempio: saremmo disposti a rinunciare alle nostre tecnologie elettroniche la cui produzione e smaltimento costituiscono una delle fonti principali del dissesto ambientale?
Purtroppo le cose sono molto complesse, e solo in presenza di una presa d'atto di tale complessità si potrà sperare di imboccare una strada virtuosa.
Insomma, non c'è certo bisogno di un ambientalismo folkloristico, sicuramente buono per i mass-media ed i social, certo adatto ai processi contemporanei che sempre più si fermano alla superfice dei fenomeni.
Anche qui, alla stregua di molti ambiti della contemporaneità, occorre saper pensare ed agire in un orizzonte globale e di ampio respiro. Intervenire in profondità sul modello di sviluppo significa sicuramente, nel breve-medio termine, dover affrontare contraccolpi importanti. Contraccolpi che si può sperare di assorbire solo nell'ambito di una politica globale e di ampi orizzonti.
E' inutile nascondercelo: si tratta di temi tremendamente complessi e che legittimano un interrogativo angoscioso: sarà l'umanità capace di affrontarli?
Interrogativo rafforzato dalla circostanza che non vi è più molto tempo a disposizione, dopo di che i danni potrebbero essere irreversibili.
L'articolo che propongo ai lettori di Fucinaidee, sicuramente un po' contro corrente rispetto allo stream dominante, mi pare che abbia il pregio di un lodevole sforzo argomentativo. Per questo, al di là dei dati in esso contenuti che non sono in grado di valutare, mi pare possa meritare attenzione.

Paolo Razzuoli

Occorre una politica ambientale non basata sull'emotività

di Stefania Migliavacca

La direttiva europea 2019/904 mette al bando alcuni oggetti di plastica monouso. È apprezzabile, ma sembra un provvedimento preso sull’onda delle emozioni più che basato sui dati. La plastica è infatti lo 0,7 per cento dei rifiuti prodotti in Europa.

La direttiva contro la plastica

Il Parlamento europeo ha di recente approvato la direttiva 2019/904 sulla “riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”. La riforma contiene, tra l’altro, il bando di alcuni oggetti di plastica monouso: posate e piatti di plastica, cannucce, bastoncini cotonati, sacchetti di plastica osso-degradabili e contenitori per alimenti in polistirolo espanso.
La decisione ha avuto molto risalto sui mezzi di comunicazione, mentre sono passate sotto silenzio altre disposizioni importanti della stessa direttiva, per esempio sui target di raccolta e riciclo delle bottiglie di plastica.
La risonanza ottenuta dal provvedimento si deve probabilmente a quello che molti definiscono “folklore ambientalista”: si tratta di una sorta di distorsione cognitiva per cui molti dei nostri comportamenti sono guidati da false percezioni su ciò che è bene o male per l’ambiente.

Siamo però davvero sicuri di sapere cosa sia sostenibile e cosa no? Per esempio, quando in un negozio ci chiedono se preferiamo un sacchetto di carta o di plastica, siamo istintivamente orientati a scegliere la carta, perché, più o meno inconsapevolmente, associamo la plastica a immagini di tartarughe marine imprigionate nei sacchetti. Ma è veramente possibile definire un materiale amico o nemico dell’ambiente? Non dovremmo invece considerare il ciclo di vita di un prodotto, come viene disegnato, prodotto, consumato e smaltito? Uno studio del ministero dell’Ambiente danese lo ha fatto per diverse tipologie di sacchetti disponibili nei supermercati, arrivando alla conclusione che quelli in polietilene a bassa densità hanno un minore impatto ambientale rispetto ai sacchetti di carta o di stoffa.
La disposizione della direttiva europea arriva di fatto in risposta a un flusso di informazioni legate agli effetti deleteri della plastica dispersa nell’oceano, che rafforzano l’associazione mentale “plastica=male”. Contribuirà però a migliorare il sistema di gestione dei rifiuti e ridurre il problema della plastica negli oceani? Oppure siamo vittima di folklore ambientalista? Per rispondere, la strategia migliore è fare riferimento ai dati.

I dati dell’inquinamento marino

Iniziamo dalla plastica nei mari. L’ analisi condotta da alcuni ricercatori tedeschi  mostra che il 90 per cento della plastica negli oceani proviene dai dieci fiumi più grandi al mondo, 8 in Asia e 2 in Africa. Ne intuiamo il motivo: milioni di persone, che fino a pochi anni fa vivevano in completa povertà, oggi possono indossare vestiti di fibre sintetiche, usare detergenti, mangiare cibo conservato, bere acqua in bottiglia; in altre parole, possono godere di uno stile di vita simile al nostro. Ma sulle sponde di questi fiumi non esistono ancora sistemi di raccolta e di gestione dei rifiuti, perciò buona parte delle materie plastiche finisce dispersa nell’ambiente, nei corsi d’acqua e, infine, in mare. Ben poco potrà fare la decisione europea per ridurre questo fenomeno.

Quanto al mar Mediterraneo, lo studio di Arcadis ha rilevato che la spazzatura dominante è la plastica (63 per cento), seguita da carta, cartone e mozziconi di sigaretta (22 per cento), rifiuti sanitari (7 per cento) e vetro (4 per cento). Il dato più interessante, però, è che solamente il 13 per cento arriva da lontano: la maggior parte dei rifiuti è abbandonata direttamente sulla spiaggia da bagnanti e turisti. E, dunque, forse non esistono materiali buoni o cattivi, ma comportamenti giusti o sbagliati. La dispersione dei rifiuti, in molti casi, è un problema di scarso senso civico e va affrontato educando i cittadini e migliorando i sistemi di raccolta. Certo non basta autodefinirsi “plastic free” come hanno iniziato a fare molte località balneari e molte istituzioni, contribuendo così indirettamente all’idea che la plastica sia da rifuggire come male assoluto. Per esempio, la Sicilia è una delle regioni più arretrate sul fronte della gestione dei rifiuti: con il 21,7 per cento ha il coefficiente regionale più basso d’Italia per la raccolta differenziata. Eppure, studia una normativa che le permetta di darsi la patente di prima regione “plastic free”.

Ma qual è l’incidenza della plastica sul totale dei rifiuti generati in Europa? Nel 2016 nell’Unione sono stati prodotti oltre 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti (fonte Eurostat). Di questi, la plastica rappresenta lo 0,7 per cento, poco più di 17,5 milioni di tonnellate. Eppure, si moltiplicano le misure rivolte a questa categoria mentre poco si fa, per esempio, per migliorare gestione dei rifiuti definiti “minerari”, derivanti principalmente dal settore edilizia e costruzioni, una categoria che da sola costituisce in Europa il 70 per cento del totale.

Qualsiasi iniziativa volta a ridurre l’inquinamento, nelle sue varie forme, è sicuramente da apprezzare. Dovremmo però riflettere sulle priorità. Tanto più che l’industria italiana di stoviglie monouso in plastica è la più importante in Europa, con una quota di export superiore al 30 per cento, 1 miliardo di fatturato per circa 30 aziende e 3 mila addetti diretti.

Testi correlati

(da www.lavoce.info - 30 luglio 2019)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina