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Breve commento introduttivo

Tutti noi usiamo ormai lo smartphone e tutti noi siamo continuamente controllati: in barba alla retorica che si fa sulla privacy.
Sappiamo bene che siamo spiati, con il microfono e con la fotocamera del nostro smartphone, ma forse non abbiamo piena consapevolezza del livello e delle implicazioni che tale controllo può implicare.
Ormai è quasi impensabile rifiutare l'uso dei social, ma la gioia del loro uso ci fa dimenticare il valore di ciò che siamo disposti a cedere, ovvero pezzi di noi, senza preoccuparci più di tanto delle conseguenze e senza dare troppo valore a quel che cediamo.
Invece è bene porsi seriamente il problema, prima di regalare alle app il nostro telefono ed i nostri dati. Questo testo che proponiamo ai nostri lettori, ci aiuta a capire i rischi a cui andiamo incontro con una eccessiva generosità nel rispondere affermativamente alla richiesta di accesso al nostro smartphone.

Paolo Razzuoli

Chi acconsente è nei guai: ecco cosa succede quando regali alle app il tuo telefono (e i tuoi dati)

di Alberto Puliafito

Quali parti della tua vita cedi o cederesti per ricevere in cambio un servizio? Fino a che punto consenti o consentiresti a una società che non conosci di impossessarsi delle tue foto, del microfono del tuo telefono, dei tuoi contatti? In nome di un po’ di divertimento estemporaneo, pur di sentirci parte della conversazione “social”, pur di fare quello che stanno facendo tutti gli altri, quel che appare sempre più di frequente è che siamo disposti a cedere pezzi di noi, senza preoccuparci più di tanto delle conseguenze e senza dare troppo valore a quel che cediamo.

La moda del momento è prendere un proprio selfie, invecchiarsi con FaceApp e poi pubblicare il risultato online. FaceApp è un'applicazione che utilizza delle tecnologie di intelligenza artificiale per cercare di simulare l'invecchiamento delle persone che si prestano. Questa moda, lanciata da alcuni vip con l'hashtag #FaceAppChallenge, è emblematica di questa concessione di sovranità sui nostri dati. Addirittura sulla nostra faccia. Che sarà mai, dirà qualcuno. È solo un’applicazione, un filtro, un gioco. Che sarà mai? Non è che possiamo sempre preoccuparci di tutto: ci vuole un po' di leggerezza ogni tanto.

Ben venga la leggerezza. Ma almeno sapere bene cosa stiamo facendo, quello sì, ci è richiesto. Se non altro perché dobbiamo sapere se e come, un giorno, potremo riprendere possesso di quel che cediamo. La cosa interessante è che FaceApp non è nuova: fondata in Russia nel 2017, aveva conosciuto un primo momento “virale” ad aprile del 2018. Solo che in quel momento Facebook era nell'occhio del ciclone mediatico per lo scandalo Cambridge Analytica, la soglia dell'attenzione su questo tipo di giochini era alta e dunque la crescita era rimasta confinata a pochi. Passato il momento caldo, però, rieccoci a parlarne. E a vedere parenti e amici che si invecchiano.

Quando installiamo una app, siamo ormai abituati al fatto che dobbiamo consentire a quell’applicazione l’accesso a qualcosa che ci riguarda. Siccome quel qualcosa non è materiale, ci viene molto più facile farlo. Di solito si tratta dell'accesso al microfono o alla fotocamera: niente di che, vien da pensare. Anche se quel microfono e quella fotocamera sono gli occhi e le orecchie di apparecchi che ci portiamo ovunque, dalla camera da letto al bagno. Vuoi usare Uber al meglio? Consenti di accedere alla geolocalizzazione, ma solo mentre la app è aperta. Vuoi condividere in tempo reale la tua posizione all’autista che deve venirti a prendere? E allora devi dare il consenso alla geolocalizzazione sempre. Vuol dire che, se poi te ne dimentichi, anche quando non usi Uber per mesi, la app sa dove sei. In qualunque istante della tua vita.

In verità, per quel che ne sappiamo, anche il device che ti porti appresso sa di te un sacco di cose. Una fonte americana che ho avuto modo di incontrare di persona e che non vuole essere rivelata, ma che ho parecchie ragioni per ritenere attendibile, sostiene che, in termini di controllo delle persone attraverso gli smartphone e le altre forme di comunicazione digitale, la nostra conoscenza è arretrata. Sappiamo quanto ci possono controllare grazie a rivelazioni di whistleblower come Edward Snowden. Ma quella sarebbe solo una piccola parte di quel che si può fare veramente. «Ho l'impressione che siano almeno dieci anni avanti rispetto a quel che sappiamo», dice la mia fonte. Non possiamo che sperare che la sua impressione sia sbagliata. Ma potrebbe non esserlo.

Allora, forse, è il momento di fare un ragionamento molto serio rispetto alle scelte che operiamo sul digitale. Ai consensi che diamo. Almeno per avere controllo sulle nostre concessioni volontarie, visto che sulle altre non possiamo che fidarci. È arrivato davvero il momento di mettersi lì a leggere le privacy policy e i manuali di istruzione, anche se sembra noioso. Perché, sì, quella che decidiamo di usare può anche essere “solo una app”, “solo un gioco”, ma almeno dobbiamo essere consapevoli di quello che stiamo facendo. Dobbiamo prenderci la responsabilità dei dati cui diamo accesso, dei pezzi di noi che cediamo a terzi, siano essi società private o governi. Perché un giorno quell'invadenza potrebbe diventare semplicemente insopportabile. E non è una questione di non avere nulla da nascondere. È una questione di controllo che esercitiamo su noi stessi e che consentiamo a terzi di esercitare su di noi. È una questione di consapevolezza.

La costruzione di una consapevolezza dell’ecosistema mediatico e tecnologico all’interno del quale, volenti o nolenti, ci muoviamo, è importante. Un lavoro sistematico di creazione di quella che gli americani chiamano la media literacy è l’unico modo per non farci trattare come dei prodotti a tutto tondo, ma anche per evitare di essere infantilizzati e per non sorbirci l’ennesimo pippone paternalistico dall’ennesimo giornale che combatte una battaglia di retroguardia contro la tecnologia. Voler sensibilizzare rispetto alla consapevolezza non è luddismo: è un approccio sano alla contemporaneità.

Partiamo dalla moda del momento, visto che è più facile. Al fondo dell’homepage di FaceApp c’è un link che rimanda alla policy privacy dell'applicazione.
È questo. La data, 20 gennaio 2017, è anteriore all'approvazione del GDPR, il Regolamento generale sulla protezione dei dati in vigore nell'Unione Europea il 25 maggio 2018. Basterebbe questo per farci dubitare. E basterebbe andare avanti con la lettura del documento per scoprire, per esempio, che non possiamo scegliere di non ricevere mail di aggiornamento del servizio. Che ci garantiscono che non venderanno i nostri dati a terzi, ma poi dicono che ci sono delle eccezioni. E le eccezioni diventano un bel numero, visto che, fra le altre cose, FaceApp si riserva il diritto di «condividere alcune informazioni, come i dati dei cookie, con partner che si occupano di pubblicità. Queste informazioni consentiranno a questi partner, fra le altre cose, di inviare pubblicità mirata che possono ritenere di grande interesse per te».

In un'epoca in cui ci lamentiamo perché Facebook consente di fare il cosiddetto "micro-targeting" e in cui ci sono persone che pensano che il micro-targeting possa cambiare addirittura l'esito di un'elezione, non sarebbe il caso di cominciare ad occuparci di quel che stiamo facendo, quando consentiamo a queste applicazioni di trattarci in questo modo? Va tanto di moda, fra i catastrofisti del digitale, dire che «il prodotto sei tu». Bisognerebbe correggere questa affermazione così: «Il prodotto sei tu, se lo consenti». Il problema, se mai, non è che sei il prodotto. È che spesso lo permetti senza sapere a cosa stai prestando consenso. Quando, invece, sei sotto controllo senza averlo consentito, non sei un prodotto. Sei un prigioniero del panottico foucaultiano. Ma questa è, almeno in parte, un'altra storia. Qui vogliamo occuparci di quello che possiamo detrminare.

D'altra parte non c'è niente di male nel prestare un consenso, se questo consenso è informato e consapevole. Ma quando ci preoccupiamo veramente di queste inezie, se siamo convinti di utilizzare servizi che usano tutti? Penso a WhatsApp, per dire. O alla crescita dell'uso di Telegram. Certo: nella privacy policy del primo c'è scritto che tutte le nostre conversazioni sono criptate e non accessibili. Il secondo, addirittura, ha implementato i messaggi effimeri: vuol dire che puoi cancellarli per sempre, senza che l'altra parte con cui stavi comunicando possa tenerne traccia. Dopodiché, non possiamo che fidarci delle loro dichiarazioni. Anche la fiducia che manifestiamo aderendo a questo o a quel servizio digitale, così facile da implementare, così usato da tutti i nostri amici o colleghi, è concessa nella maggior parte dei casi senza approfondire più di tanto. WhatsApp e Telegram, se li usi intensivamente, probabilmente hanno accesso a occhi e orecchie del tuo smartphone.

In un bellissimo libro che non è stato ancora tradotto in Italia, Emotional AI: The Rise of Empathic Media , Andrew McStay, docente di media digitali alla Bangor University, problematizza in modo magistrale la complessità dell'ecosistema tecnologico in cui viviamo. Diciamo che un'applicazione ti garantisce di salvarti la vita se le consenti di accedere ai tuoi parametri biomedici in maniera non invasiva. Presti consenso? Diciamo che stai lavorando e un'applicazione ti garantisce di evitarti stress eccessivi e pronta sostituzione se le consenti di accedere ai medesimi parametri. Presti consenso? Diciamo che un'applicazione è in grado di comunicare alla centrale di polizia se un poliziotto è in pericolo, se sta per sentirsi male, se sta agendo secondo la legge e le procedure, ma in cambio richiede di avere pieno controllo su tutto quel che il poliziotto vede e sente. Presti consenso? Diciamo che un'applicazione può aiutarti a prevenire la depressione o l'ansia, ma per farlo ha bisogno di avere accesso ai tuoi stati d'animo. Presti consenso?

Non è fantascienza. La quantità di esempi offerti da McStay – che, in maniera laica, sciorina esempi positivi e deteriori – è utilissima per renderci conto di cosa stiamo parlando, di quanto complesso sia il tema e di quanto sia arduo orientarci in questa specie di giungla tecnologica di cui non vogliamo fare a meno ma su cui siamo spesso poco informati, anche quando pensiamo di esserlo. La differenza fra un futuro distopico di controllo assoluto e un futuro utopistico di libertà assoluta non dipende dall'accettazione o dal rifiuto della tecnologia. Dipende, piuttosto, dalla consapevolezza con cui presti consenso.

(da www.linchiesta.it - 20 luglio 2019)

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